Cindy Sherman è uno di quei nomi che nel giro dell’arte contemporanea suscita da sempre un’ammirazione unanimemente reverenziale. Da più di trent’anni il suo lavoro di fotografa si concentra sul concetto di identità e sulla natura della rappresentazione della figura umana. New York, la città che di sicuro più fermamente ha creduto in lei, le dedica un’enorme retrospettiva (aperta fino a giugno presso il Museum of Modern Art), che celebra il suo lavoro dagli anni ’70 fino ad oggi.
Personaggio istrionico e surreale, Cindy è riuscita ad interpretare, come un’attrice di fronte alla macchina da presa, una quantità infinita di personaggi. Tra le serie più note in assoluto c’è ad esempio quella dei ritratti di quadri famosi del passato (“History Portraits”, 1989-1990), oppure quella ispirata dall’immaginario cinematografico degli anni ’50 e ’60 (“Untitled Film Stills”, 1977-1980), senza dimenticare quella coloratissima e malinconica dei “Clowns” (2003-2004). Capitale peculiarità della sua opera è il fatto che lei stessa è l’unica artefice delle sue spaventose e radicali trasformazioni. Trucco, parrucco, e tutto ciò che pertiene all’ambito scenico, viene diretto ed organizzato in prima persona, solamente e sempre da lei.
Una selezione di fotografie dalla serie “History Portraits”, 1989-1990.
Ma non solo. Se abiti, cerone e ambientazione fanno parte di una ricerca formale oggettiva, Cindy si presenta anche come un animale da palcoscenico, grazie alle sue obiettive capacità attoriali. Interrogata sul perché non abbia mai usato altri soggetti oltre alla sua figura, ha affermato che nessun altro eccetto lei sarebbe stato in grado di riprodurre tutte quelle microespressioni facciali che ritiene essenziali per trasmettere il particolare senso estetico delle sue foto.
E’ infatti impressionante quanto Cindy sia capace di cambiare, andando ben oltre il trasformismo epidermico del makeup e del costume, per toccare qualcosa di molto più profondo, enigmatico e sostanziale: le sensazioni che le sue foto scatenano vanno dallo stupore fino ad arrivare talvolta al ribrezzo, passando per tutta una serie di emozioni controverse.
Quattro opere del ciclo “Clowns”, 2003-2004.
La sua ricerca sugli stereotipi e sui modelli – non tanto femminili, ma in genere quelli proposti dalla società, dai media, dai dettami delle consuetudini culturali – si declina con una varietà tale da sconcertare per il livello di fantasia e di capacità visionaria dimostrato. Le sue foto, per lo più di grande formato, ingoiano lo spettatore nel proprio “mood” concettuale, obbligandolo a sua volta ad una riflessione più profonda su ciò che vede e su quello che in genere consuma passivamente con gli occhi, come avventore di un universo visivo collettivo distorto.
Un’antologia di autoritratti senza titolo prodotti in vari momenti della carriera dell’artista.
Il merito della Sherman è quello di utilizzare il proprio corpo, e soprattutto il proprio viso, come uno strumento espressivo capace di andare ben oltre la mera versatilità, proponendo ulteriori significati provocatori ed ironici di rara sottigliezza. Qualcuno l’ha addirittura definita come un mix di Hitchcock e Dickens, proprio grazie alle sue doti narrative, commiste allo spirito grottesco che sa infondere al tutto.
Pur avendo collaborato a volte con il mondo della moda (ha lavorato ad esempio per il celeberrimo stilista americano Marc Jacobs, oppure per il notissimo brand di cosmetici Mac), il suo lavoro resta comunque un esempio emblematico di un’indagine artistica a 360 gradi.
Una selezione di immagini dalla serie “Untitled Film Stills”, 1977-1980.