Saggezza russa e sarcasmo calabrese plasmano il rapper che se ne fotte e ciò che pensa dice.
Turi Testaccia Malata Con Sarcasmo e Ironia
“Questo suono lo accompagna, lo possiede e lo cattura”.
Ricordo Capeesh come se lo avessi sempre ascoltato.
Lealtà e Rispetto è stato uno dei dischi che nella mia personale Golden Age del rap ha rappresentato un pilastro che ha contribuito in modo esponenziale a far sì che questo genere non si limitasse ad un mero ascolto, ma ad una quasi speculazione sul tema.
Sarà stato che il marcato accento calabro richiamava le ataviche origini del mio sangue.
Sarà stato che nell’euritmia del dialetto all’improvviso esplodeva un’ironia che mi apriva un sorriso.
Sarà stato che il calore della voce sottometteva qualsiasi beat.
Da Lealtà e Rispetto ho cominciato a scendere la scala delle uscite in ordine anacronologico, studiando quell’intrecciatore di rime e sarcasmo che si alternava in tematiche a volte impegnate, a volte spensieratamente spregiudicate.
Dalle radici dell’hip hop alla presenza in un collettivo con sciarpetta rossa e idee integraliste in Zora La Vampira; dagli intermezzi di Colpa delle Donne -che potrei ascoltare ancora mille volte senza rimanere seria un secondo- alla poesia conturbante “come un feto morto dopo il parto di una suora”.
Eppure l’ho sempre immaginato un introverso scherzoso, che maschera dietro un’ironia amara, l’insoddisfazione di una vita con un successo sempre minore rispetto non a quello che lui stesso avrebbe voluto per la sua musica, ma per quello che la sua musica avrebbe meritato.
Dietro le parole blasfeme senza freno, Turi dipinge la sua realtà vissuta come ipocrisia a colori.
«Le tue origini non sono integralmente pure. Eppure hai privilegiato quella metà calabra, senza mai menzionare nei tuoi pezzi il tuo DNA russo. Perché?»
«Perché l’identità calabra è radicata in modo molto più forte. Racconterò un aneddoto: quando ero ragazzino a cinque, sei anni sono stato tre mesi in Russia (dato che mia mamma è originaria di là); tornato in Calabria avevo completamente scordato l’italiano e dato che parlavo solo russo, mio padre s’incazzò come un animale con mia madre e le disse: “Mai più una cosa del genere! Hai fatto tornare nostro figlio russo!”. Ho smesso di andare in Russia nell’ ’89 per varie vicissitudini, ma ci vorrei tornare. Il discorso è che io ho visto l’Unione Sovietica al tempo del comunismo e faceva decisamente un altro effetto rispetto ad adesso. Io sono andato quando era tutto grigio, non c’era niente.»
«In ogni caso non ci sono pezzi in cui menzioni questa parte delle tuo origini…»
«In realtà tu non hai studiato. Nel disco di Piotta del 1998 Comunque Vada Sarà Un Successo nel pezzo che si chiama Roma 2000 International, ho fatto una strofettina in russo, aiutato da mia mamma: una cosa patetica, perché il testo è roba in freestyle stupido, però musicalmente era bello. Forse la gente non lo sa, pensa che sia qualche polacco assoldato da Piotta all’epoca a 5 € a sessione ed invece sono io.»
«Il tuo percorso musicale viene battezzato da Tre Picciotti Con Una Fava. Il titolo è ironico eppure i testi sono old school e le tematiche impegnate come se tu volessi sembrare serio. È così?»
«Ma io in realtà sono serio, soltanto che questa serietà poi la faccio passare nel filtro dell’ironia, del sarcasmo e cinismo mio che ho sempre avuto, ereditato da mio padre: anche nelle disgrazie si trova la cosa positiva. La Russia mi ha trasmesso un’altra cosa, invece: il fatto di riflettere. I russi sono molto poeti. Ricordo mio nonno che mi parlava per aforismi. Anche in Calabria succede, ma con una diversa visione. La cosa calabrese è molto più ironica. Quel disco l’ho scritto nel ’95 ed era uno sfogo, ma comunque era fatto bene perché fatto con tutti i crismi dell’epoca. Ho avuto un sacco di feedback positivi: il primo che l’ha scritto è stato Esa. Io facevo il militare a Sulmona, comprai AL e ci trovai la recensione di 3 Picciotti Con Una Fava scritta da Esa: ero contentissimo.»
«Nel 2003 esci con Mattacchiones. Un pezzo come “Lungo Simposio Sulle Problematiche Sul Trasformismo All’Interno del Sistema Politico e Non” è di un forte impatto sociale.
Sei consapevole dell’influenza sul pensiero che hai provocato nelle generazioni dell’epoca?»
«I Mattacchiones è un progetto nato molto spontaneamente: ci incontravamo settimanalmente col mio socio Ivan, perché ci eravamo un po’ rotti il cazzo di questa cosa seria. Scrivevamo quello che ci veniva di dire: il vero keep it real. Noi, parte delle vecchie generazioni eravamo molto più soldatini dell’hip hop, mentre le nuove erano più yoyo, più vicini a Fifty Cent e noi prendevamo per il culo quella roba lì. Grasse risate. Tra l’altro anche dei pezzi grossi dell’hip hop underground avrebbero voluto partecipare al secondo tape che avremmo fatto uscire; uno tra tutti era Kaos, che ogni volta che mi beccava, mi diceva: “Voglio fare un personaggio! Ti prego fammi fare un personaggio!”. Perché comunque faceva ridere, era una cosa divertente.»
«Ma alla fine il secondo tape non è mai uscito, no?»
«No, ma non si sa mai! Può essere pure che qualcosa uscirà.»
«Sul tuo sito c’è una sezione chiamata Battute. Quante donazioni hai ricevuto per continuare ad aggiornare i tuoi aforismi?»
«Più che offerte per aggiornare le battute, ho ricevuto un sacco di offerte da parte di comici televisivi come sceneggiatore o come autore. L’ultima l’ho avuta la settimana scorsa; mi capita ogni due, tre mesi: scoprono la mia pagina e mi chiedono di lavorare con loro, perché magari trovano quel tipo di ironia che forse non si riscontra in alcuni autori che vanno di moda adesso. Solo che io sono troppo grezzo per andare in tv: salto dalla cultura alle vagine, ai bocchini come un giocoliere.»
«Non credi che per la Universal, Colpa delle Donne quando uscì, sarebbe stato un disco prematuro?»
«Non lo so. Io non sono un piagnone, uno che dà la colpa agli altri. Purtroppo sono uscito in un momento in cui il mercato era saturo e le televisioni avevano cominciato ad essere sfiduciate nei confronti dell’hip hop. Molte persone mi dicono che io ho cambiato stile con quel disco, mentre invece io in quel periodo lì vivevo quel tipo di sound: mi ero fissato con la roba anni Ottanta, ho vissuto cose assurde con delle donne, esperienze allucinanti. Keep it real. Quindi ho voluto tirare fuori questo lato mio, raccontando quello che ho vissuto in quei due, tre anni. Non avevo niente di profondo da raccontare. E non è stato capito, perché all’epoca tutti marciavano sul fatto che Fabri Fibra era negativo, Inoki era in un certo modo ed altri in ogni caso erano pesanti. A me è venuta la cosa opposta. Io volevo essere scanzonato: funky -vuol dire quello-. E ovviamente quando la corrente è in un modo e tu cerchi di fare una cosa diversamente, non vieni calcolato. Come al solito però, come tutti i miei dischi, a distanza di anni la gente mi scrive dicendo: “Lo sai che quel pezzo è da paura?” e sta cosa succede anche con Salviamo il Salvabile del 2001. Ormai sono abituato, io tanto lo so: quando fai una cosa di valore, la gente prima o dopo se ne accorge, soprattutto se hai talento.»
«Testaccia Malata è uno degli ultimi pezzi che si discosta dal mood ironico dell’ultimo periodo. Il pezzo successivo recentemente uscito è quello con i Loop Therapy Per Non Dire Basta, in cui mantieni una malinconia mista a disillusione, ma con un’icona di salvezza: la signora musica. Cosa sarebbe stata la tua vita senza questa signora?»
«Sarebbe stata un disastro. Oppure forse sarebbe stato meglio, perché mio nonno era colonnello dell’aviazione russa ed il mio sogno da bambino era fare il pilota di aeroplani. Poi a quindici anni mi sono trasferito a Viterbo e mi ha invaso sto fatto del rap. Magari a quest’ora ero pilota. Il fatto della musica comunque mi ha aiutato un sacco, perché io da ragazzino (come adesso) ero molto timido. Sul palco sono un cazzone e riesco a coinvolgere le persone, mentre quando scendo la gente mi dice: “Però che palle! Ma non sei come sul palco… Sei noioso!”. Ma io sono fatto così: la musica -non vorrei essere banale- è la mia valvola di sfogo. Testaccia Malata era un pezzo che ho fatto per un EP che purtroppo non ho potuto proseguire ed era un pezzo che voleva delineare un confine e dire “basta”. Il Turi di prima scanzonato non ci può essere più e la conferma è proprio Loop Therapy. Per Non Dire Basta è un pezzo intimo mio, non l’avevo mai fatto -a differenza della gente che ci marcia su questa cosa della musica e ci fa album interi, facendo i piagnoni quando l’unico problema che hanno magari è un’unghia incarnita-. Poi non si sa mai, magari tra due, tre anni, ma pure tra un mese tornerà il mio lato scanzonato: l’imprevedibilità della vita.»
«Il fatto che il supporto per le tue battute su Facebook sia stimabile ad una media di 200 like a post, mentre quando cerchi di fare pacchetti offerta della tua musica si aggira a 20 pensi sia un messaggio?»
«Ma questo è il famoso hype. A me piace Facebook -in generale tutti i social network- perché diventano tutti buoni: tutti si preoccupano dei cani malati, dei bambini stuprati, di tutte le cose brutte del mondo, tutti sensibili per la causa palestinese. C’è sempre una corrente e questa cosa è ridicola. Per andare contro dico il cazzo che mi pare e la gente pensa che io sia un rivoluzionario quando parlo di una cosa, oppure che stia cercando di fare il saggio. Io mi metto lì -come quando vado di corpo la mattina- e quello che mi passa per la testa scrivo. Poi è chiaro che c’è il buonista, benpensante, c’è quello che capisce che io scherzo, ma molto spesso le cose vengono travisate e la gente impazzisce. Mi arrivano messaggi di protesta: fa ridere sta roba qui. Sul fatto che quando pubblico i miei pacchetti la gente mette 20 like è pure normale, perché io pezzi nuovi ultimamente non ne ho fatti, quindi non c’è interesse. In questo periodo poi mi diverto molto di più a fare il produttore che a rappare: quello che mi sento faccio.»
Turi sarà presente sul palco del C.P.A. a Firenze questo venerdì 3 aprile 2015.
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Credits Top Photo: Fabrizio Consoli