Da un melting pot di una Roma periferica, Ice One ripercorre una vita che è musica e incontri sciamanici
Ice One e La Serie di Fibonacci dell’Hip Hop
Ice One nella cupezza del suo suono, è uno dei fasci di luce che ha illuminato una parte inesplorata della musica italiana: l’ha creata, l’ha plasmata.
Una produzione che è un mattone fondamentale per la costruzione di un castello sonoro, che ad oggi si è sviluppato grazie anche al suo lavoro minuzioso, alla sua dedizione, alla sua coerenza nonostante la vita lo abbia minacciato nelle forme più inaspettate.
Un DJ, un breaker, un rapper, un’anima Hip Hop che ha superato le sofferenze e gli sconforti degli anni, ponendosi come un maestro nell’arte marziale della musica.
Una creatura plasmata dalla musica che confida che “Mia madre mi racconta ancora che ogni tanto da bambino già attuavo una forma primordiale di scratch. Quando ero piccolo avevo un 45 giri sbeccato da un lato e infilandolo nel mangiadischi, aspettavo quel punto per fermarlo e fare “ghighu-ghigu-ghigu”. Quando ho sentito il rumore dello scratch, per me è stato familiare: è come se avessi risentito una ninna-nanna”.
Una Ninna Nanna come quella di un Odio Pieno.
Dall’alto di Nuvole Di Skunk a stare fiero Sopra Il Colle, dal sedere nel retro di un taxi di Quelli Che Benpensano, riuscendo ad essere Salvo Dentro Al Fuoco, per dopo lanciare un incantesimo Prima Di Andare Via, fino ad arrivare ad essere Noi.
Si può non avere credo, ma è impossibile non percepire un’energia occulta nel momento in cui una creazione riesce a trasmettere un brivido.
Da zero a uno.
Dalla cecità alla vista.
Dalla sordità all’udito: la musica.
Qual è la percezione musicale attuale, per te che sei stato protagonista della nascita del Hip Hop in Italia?
Nella scena Hip Hop passata, come quella odierna, io sono un personaggio che in alcuni casi è stato definito un “destabilizzatore”, perché non accetta la logica dei king,la gerarchica, pur sposando al 100% la meritocrazia, ovvero di fare le cose fatte bene.
La mia percezione dell’Hip Hop italiano è che c’è una grande fetta di lavoro che si sta facendo – cioè quello del mainstream – che sarebbe dovuto accadere probabilmente prima e che rispetto a quello mondiale, è sicuramente immaturo, perché nell’analisi dei testi di un sacco di artisti – da Fibra ai Dogo, che stimo anche tecnicamente – siamo scesi al nulla. E magari nelle interviste senti che dicono: “quando diciamo le cose fighe non funzionano”, ma è normale che non è così. Lo devi fare con l’esempio. Se te parli e poi dopo ti trovano rantolante in un angolo, perché sei strafatto di cocaina, è normale che la gente non ci crede a quello che dici. Magari fai pure i dischi d’oro, perché hai venduto 15.000 copie, ma a cosa servono? Stai nel tuo castello dorato. Non sono valori che mi attraggono, non mi hanno mai attratto e mai mi attrarranno.
È roba che pesa.
In che modo hai vissuto l’evoluzione del tuo suono dagli anni Novanta ad ora?
C’è stato un cambio tecnologico che mi ha fatto capire che dovevo difendere la mia identità sonora, per cui ogni volta che ho approcciato ad una nuova macchina, ho cercato di ritrovare i miei suoni, quelle cose che mi esprimevano. Dal punto di vista musicale, si sono ammorbiditi degli spigoli inutili, però quelli che ci dovevano stare sono diventati più affilati. È sicuramente più centrata come musica. Posso dire di aver fatto dei grandi passi avanti nella scienza del suono, non dal punto di vista meramente tecnico, ma anche dal punto di vista evocativo: è come un secondo linguaggio, oltre a quello del rap.
Se tu fossi cresciuto in una città diversa da Roma, credi che avresti avuto la stessa evoluzione musicale?
In realtà io sono cresciuto in varie città diverse da Roma.
Sono nato a Torino e ci ho passato i primi 6 anni: mi ha dato un imprinting molto forte e sicuramente nella mia musica quei primi anni contano tantissimo, anche perché lì ho mosso i primi passi. I miei sono di origine napoletana, quindi gran parte dell’estate l’ho passata in Campania fino all’adolescenza. Roma l’ho vissuta sempre come melting pot, perché in realtà sono di Ostia e lì c’era gente da tutti i posti: dalla Grecia al Cile, Panama, Cuba… Quando sono andato in giro nelle altre città, ci ritrovavo sempre qualcosa del mio background culturale, però Roma mi ha dato qualcosa in più a livello musicale. Io ad oggi mi sento romano con una forte componente meridionale.
Quali sono stati i fattori che hanno influito sulla decisione di non realizzare un terzo album con il Colle Der Fomento dopo il successo di Scienza Doppia H?
Per un fatto di tempi: Massimo e Simone sono sempre stati, giustamente, lentissimi. In un certo momento questo atteggiamento poteva essere dettato dalle paure, che vivevamo un po’ tutti in quel periodo, perché eravamo più piccoli, però allo stesso tempo è perché sono due procrastinatori incredibili. Rimandano, perché non sono mai sicuri, però dietro non c’è un’insicurezza: è una voglia di dare il massimo ed è quello che è successo in quel caso là. C’erano poi altri tempi a livello di discografia.
Baro è subentrato in un momento in cui c’era stata un po’ di stanchezza. Io in quel periodo lì, mi stavo separando, per cui c’erano delle cose personali che non mi permettevano di essere lucido al mille per mille. Sandro (Baro, ndr) aveva già scratchato all’interno di un pezzo di Scienza Doppia H, per cui si era già pensato a lui come possibile DJ dei Colle Der Fomento. Fu un passaggio abbastanza naturale, perché io mi ritirai piano piano da tutto quello che avevo fatto: ero una molla che ormai aveva scaricato tutto quello che poteva scaricare e si doveva riappallottolare per fare un altro lancio. La vita poi ci ha rivoluto insieme in altre forme, tutti quanti più maturi con tutto quello che c’è stato alle spalle: non abbiamo litigato. È stato un momento in cui l’attenzione si è dovuta rivolgere all’interno di ognuno di noi stessi. Loro ad oggi sono una bellissima formazione, anche grazie a Baro. Sono sicuramente il mio gruppo preferito per sempre e quando dico mio, lo dico col doppio senso. Io mi sento un po’ Colle Der Fomento.
Nel 1996 è uscito La Morte dei Miracoli in cui con Frankie Hi-NRG hai prodotto quattro tracce. Da quell’album in poi l’MC, nonostante l’iperattività musicale, non ha più avuto un riscontro massiccio. Dato che ci hai collaborato nella realizzazione del suo disco di successo (trovando quindi delle motivazione valide per una collaborazione) perché pensi non abbia avuto un riscontro più ampio?
C’è stata una mancanza d’interesse della major. Io lo cito sempre come uno dei più grandi errori discografici nella storia dell’Hip Hop non capire che lì c’era stato un team che aveva creato quel suono. C’era anche la voce di Sinigallia, che dentro a Quelli Che Ben Pensano ha lo stesso peso, delle parole di Frankie: è stato un grande scrittore di testi. Quel testo rappresenta un periodo: lo puoi amare o odiare, però quel pezzo lì lo conosci. Grazie al mio suono venne accostato a quello americano in quel momento: abbiamo messo anche noi una bandierina sulla mappa dell’Hip Hop internazionale. Dopo per me non è più stato lo stesso, perché Frankie non aveva proseguito quel viaggio lì e ha avuto anche delle uscite a livello giornalistico, che non lo hanno fatto stimare dal popolo dell’Hip Hop. Lui rappresenta un certo tipo di poteri, come immagine; ha un grande appeal sulla gente, ma rappresenta un certo tipo di pubblico e ha fatto il suo corso oramai da parecchio tempo, l’ha anche dimostrato con i vari Festival di Sanremo con i quali non è più riuscito a ridoppiare Quelli Che Ben Pensano. Se ci fosse stato un lavoro intelligente di analisi della musica, le etichette, lui o qualsiasi altra persona, avrebbero dovuto reintegrare gli equilibri di quel gruppo che aveva creato quei pezzi, cercando di lavorare su quel sound e capire quale doveva essere la mossa migliore dopo.
Qual è stato l’elemento che dall’underground ti ha portato ad essere conosciuto anche in altri ambienti quali quello cinematografico o di altri generi musicali?
Il fatto di aver lavorato come DJ in alcuni locali abbastanza malfamati, dove mi vennero a raccattare. Lavoravo in un locale che, quando ho iniziato, era una centrale di spaccio. Quando Marco Trani, un DJ istituzione, il signor Funk per me, e altri, hanno visto sto pischello, ascoltando la musica che passavo, si sono emozionati e mi hanno detto: “non ci devi più stare in un posto del genere, perché fai divertire la gente e qui non sanno nemmeno che cosa gli stai dando”. Seconda cosa: su Rap Pages (un giornale americano) c’era questa rubrica che si chiamava “A” e “B”, in cui da una parte si esponeva un’opinione e dall’altra si controbbatteva. Su questo numero, vado a leggere e vedo che parlano di Funkadelico, dicendo che “il flow è da paura, il ritmo molto funk è figo, anche se non so di che sta parlando” e alla fine “Mi sa che Rap Pages dovrà muoversi ed andare anche in Italia”.
Quelle sono state un po’ le cose che mi hanno portato fuori. In ogni tempo c’è stato qualcosa che ha creato dei collegamenti che facevano vedere che le cose mie potevano anche andare all’estero.
Hai collaborato con Sinigallia ai tempi de La Comitiva. Un anno fa hai remixato il brano Prima Di Andare Via. C’è stato un episodio che vi ha riavvicinato professionalmente?
In realtà con Riccardo non ci siamo mai allontanati. A livello personale non c’è mai stato un buco vero e proprio. È una di quelle amicizie che durerà nel tempo perché ci siamo fatti solo del bene, a parte qualche piccolo scazzetto adolescenziale. Lui è un personaggio che io definisco sciamanico, pur non volendolo essere. Quando c’è lui succedono sempre cose incredibili, percepisci sempre il valore delle cose che accadono. Con Riccardo c’è sempre nell’aria la volontà di rifare qualcosa. Un giorno magari io dirò una cosa in un suo pezzo o lui in uno mio, oppure non faremo niente, ma passeremo delle giornate ad ascoltare le nostre rispettive produzioni: anche quello è un modo di fare musica. Se non fossimo stati amici, l’avrei comunque stimato. Ha inventato un suono di Roma che viene erroneamente associato ad altri.
Cose che si sono portati dietro i Tiromancino ed altri artisti, sono in realtà di Sinigallia.
Assistendo nell’ultimo periodo ad una fusione di generi musicali, quale risvolto credi avrà l’Hip Hop nel panorama musicale nazionale?
Questa storia della fusione dei generi musicali in realtà potrebbe essere vista anche in un altro senso, perché se guardiamo solo gli ultimi dieci anni è chiaro che vediamo così. L’Hip Hop nasce con il funky e con la disco per cui i primi MC rappano su delle cose suonate con gli strumenti, che tendono ad imitare giri o standard come Good Times degli Chic. Il rap negli anni Ottanta era elettronico come lo è oggi (come la trap): è un ciclo che si è già presentato. Dopo, l’elettronica mette in gioco questa cosa del campionamento, cioè la possibilità di manipolare una registrazione e farla diventare un’altra cosa, sfruttando dei loop o dei suoni singoli estratti da altri dischi. Successivamente abbiamo un’implementazione un’altra volta: si torna al funk e alla disco, con i quali si era partiti. Poi di nuovo l’elettronica. È una serie di Fibonacci della musica che si ripete fino ad arrivare ad oggi. La fusione che ha oggi l’Hip Hop è semplicemente che ha saccheggiato da tutto; si è nutrito da altri generi musicali.
È arrivato il momento di mettere in opera quello che si sa fare, perché non c’è più niente da scoprire e tecnicamente si può fare quasi tutto: è necessario scavare nella propria fantasia.
E tu quale risvolto musicale avrai nel panorama nazionale?
Adesso il progetto principale è Latte & Sangue.
Nel prossimo futuro uscirà un mio album da producer: ci saranno collaborazioni spontanee – non pagate -. Ci saranno pezzi in freedownload, più leggeri rispetto alle produzioni di Latte & Sangue, per una fruizione più veloce. Quest’anno ho fatto un album di sonorizzazioni con la Irma Records che si chiama Beat O Rama e in teoria dovrebbe uscire questo album di DJ Sensei, ma me lo terrò per il 2016. Stiamo lavorando non in maniera operativa con Diego (Don Diegoh, ndr) ad un seguito di Latte & Sangue: tanti lati sono stati trascurati in favore di altri. Ci sarà sicuramente un secondo album.
“Dico, Condivido, Volo, Dico “Ohm”, questo resta il nostro gioco e resta tutto qua”.
Credits Photo: Filippo Leonardi