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Bassi Maestro a ruota libera: “Moriremo prima di Sanremo!”



Incontro Bassi Maestro (all’anagrafe Davide Bassi) alla Fnac di Firenze per presentare, assieme a lui, “Stanno tutti bene”, il suo nuovo lavoro in studio, che segue a pochi di mesi di distanza l’EP “Tutti a casa”. Bassi, milanese doc, classe ’73, è un pilastro della scena hip hop italiana: è a giro da sempre, ha lavorato con tutti, dimostrando un notevole intuito discografico ed un’attitudine fortemente legata a costanza e coerenza.

Un vero e proprio punto di riferimento, quindi, per Milano e non solo. Molte le sue collaborazioni con gli artisti d’oltreoceano, sia in veste di dj (è stato, per dirne una, il dj ufficiale per il tour europeo dei mitici Beatnuts), sia in quella di produttore/beatmaker. Qualche nome? Talib, Busta, MOP, Coolio, Rakim, e mi fermo qui. Ma potrei continuare. Parecchio.

E’ un personaggio attivissimo, instancabile, “sempre sul pezzo”. E’ possibile incontrarlo a giro per la penisola tra live o dj set o rintanato nel suo studio, Press Rewind, mentre sforna il suo prossimo successo (o il prossimo successo del prossimo artista di successo!). Ultimamente, oltre alla release nel giro di pochi mesi di questi due lavori, lo abbiamo visto impegnato nel tour italiano di End of the Weak, il bel contest dedicato ai mangiamicrofoni di tutta Italia che ha toccato la città di Firenze, Ferrara e Milano.

Ciao Davide. Parliamo un po’ di questo bel disco, “Stanno tutti bene”, che hai da poco rilasciato. Quando hai cominciato a registrarlo?
Sono una persona che riesce ad essere produttiva quando ce n’è bisogno. L’idea del disco nasce l’estate scorsa assieme a quella del disco pricedente, “Tutti a casa”, uscito prima di Natale, che ho messo in free download. Erano un po’ di anni che non uscivo con un disco ufficiale. Mi sono “perso” nel fare un sacco di collaborazioni, oltre a due EP solisti, ad una serie di mixtape, ai lavori con gli americani ed al disco con Babaman, che si chiama “La lettera B” e che è una specie di street album. Quindi, visto che chi mi segue, alla fine, giustamente, si chiedeva: “Ma quando esce con un disco ufficiale?”, mi sono detto “Facciamo qualcosa di nuovo”. E così, tanto per complicarmi la vita ulteriormente, ho pensato: “Facciamone due” (ride).

L’idea di “Tutti a casa” era quella di fare il mio tipico disco di hip hop di stampo classico, chiamando un sacco di amici coi quali ho già collaborato, ecc., ecc. “Stanno tutti bene” invece l’ho scritto nel frattempo, cominciando appunto l’estate scorsa e terminandolo circa il giorno prima che andasse in stampa (ride). Il pezzo con Salmo, per dire, è stato finito proprio la notte prima di andare in stampa… Rispetto ai miei lavori precedenti questo è un disco “un po’ più avanti”, uno step successivo, con un altro tipo di scrittura, dato che mi sono concentrato di più su quello che sono diventato negli ultimi anni.

Un’evoluzione mia, quindi, ma anche della musica. In “Stanno tutti bene” si sente sicuramente lo stampo “classico” dei dischi che ho fatto in passato. Però, sia come sonorità ed arrangiamenti, che come tipo di scrittura, ho cercato di adeguarmi ai tempi che cambiano, provando allo stesso tempo a dare anche un taglio un po’ più “easy” ad alcune produzioni, pur senza renderle “commerciali”.

A me non interessa fare il pezzo col cantato che va in radio, anche perché non credo molto in quella cosa. La dimostrazione — lo dico sempre — è il pezzo che ha lanciato Marra, “Badaboom Cha Cha”, ovvero un pezzo che lui ha fatto indipendentemente dal disco che poi avrebbe realizzato per Universal, e che invece è diventato il suo pezzo di maggior successo, a dimostrazione del fatto che non è come tu concepisci un pezzo che lo fa andare, ma quello che va in quel momento preciso, in quel circuito preciso, che può essere una radio, può essere chi ti ascolta, può essere qualsiasi cosa, dato che ormai ci sono mille canali. Quindi questa era l’idea di “Stanno tutti bene”: un punto d’arrivo successivo rispetto a tutti gli altri dischi che ho fatto in passato.

Parliamo allora dei tanti ospiti che troviamo sul tuo disco. Ci sono Guè, Don Joe, Ghemon, Salmo, L’aura. Mi sono perso qualcuno?
Sì, c’è anche Zef, un produttore giovanissimo, che arriva da Sondrio e che conosco da un po’ di anni, perché aveva fatto cose in studio da me. Lui è bravo, casualmente mi era arrivato un suo beat e quindi ho scelto di metterlo nel disco.

Come hai scelto gli altri ospiti?
Alcune cose sono nate in modo reciproco, come con Guè. Io avevo fatto una produzione sul suo disco, “Il ragazzo d’oro”, e lui ci teneva a stare sul mio disco ufficiale. Il risultato è “Lirico terrorista”, che è un pezzo decisamente hardcore. Chi non ascolta hip hop farà un po’ fatica ad entrare nella mentalità di quel pezzo, un brano che fondamentalmente parla di scrittura, del fatto di scrivere delle cose a nostro modo, come piace a noi, e di essere un po’ a rischio, dato che noi rapper ci esponiamo molto, a differenza di altri generi musicali o attitudini artistiche. Questa cosa del terrorismo lirico è una metafora storica dell’hip hop. Se ne parla dagli anni ’90. Abbiamo voluto riprenderla dai fasti antichi.

Cosa mi dici invece della collaborazione con Ghemon sul brano “Ansia ansia”?
Ghemon è un artista che c’è da tanti anni, è tanto che scrive, è tanto che rappa, ed è un vero appassionato di hip hop, nonostante lui sia un conoscitore di musica a 360 gradi, uno con tante passioni. Il pezzo con lui nasce dal fatto che stiamo facendo un po’ di cose assieme, che ci troviamo molto bene a lavorare, e a me piace tenere questo filo conduttore con Ghemon. Abbiamo la stessa visione su molte cose. E quando riusciamo a trovarci a metà tra i miei gusti ed i suoi gusti nascono le collaborazioni per pezzi come “L’amore dov’è”, che abbiamo fatto assieme a Shocca, sull’EP uscito l’anno scorso. Sto collaborando con lui su altre cose, mi sto occupando di alcune produzioni sui lavori nuovi, lavoriamo in studio da me su altri progetti paralleli, che magari un giorno vedranno la luce. Quindi questa cosa con Ghemon è una roba continuativa, che mi piacerebbe portare avanti, e il risultato mi sembra sia carino.

Personalmente ritengo sia uno dei pezzi migliori del disco.
Molti mi dicono che è il più bello. Ecco, questo è un disco che va a beccare un po’ tutti i gusti. C’è il pezzo che ti piace, quello che invece magari non ti piace per niente, ma volevo che fosse così. Volevo che fosse un disco vario: stesso genere musicale ma che variasse di tinte e tonalità.

Il singolo invece come l’hai scelto? “Pluristellato” forse non è il brano più radiofonico del disco.
(ride) Beh, per me non ha senso il singolo. Quindi, fosse stato per me, non sarei uscito con il singolo. Ma per me non hanno senso neanche i video: fosse per me non li farei. Lavorando in studio ho sempre avuto l’idea che la musica non vada vista ma vada ascoltata. Io non mi metto a “guardare” i dischi, di solito li ascolto. Anche in passato per me era così, e infatti i video li faccio perché devo farli. Quindi ho scelto questo pezzo perché non sapevo che pezzo usare per rappresentare il disco. Altri non ce ne sono, perché se scelgo il pezzo con Guè allora sembra che il disco sia di un certo tipo, se scelgo quello con Ghemon sembra che sia di un altro tipo ancora, se scelgo il pezzo con L’aura sembra che voglio fare il pezzo con la cantante pop e che magari punto alle radio… Allora ho scelto il pezzo che sapevo che sarebbe piaciuto meno, che è “Pluristellato”, e infatti così è, ma almeno ho scelto il pezzo che piace a me, che è di un genere che chiamo offtopic, ovvero un pezzo di freestyle dove non dici niente. Ma son tanto divertenti, e soprattutto tanto belli da scrivere: ne arriveranno altri.

Trovo interessanti queste tue collaborazioni con artisti che provengono da background musicali tanto differenti. Sei forse uno dei pochissimi in Italia che può permettersi di fare un disco con questi ospiti senza uscirne con le gambe rotte.
(Bassi ridacchia)

Capisci cosa intendo no?
Si, che ti senti sempre dire: “Eh, però, hai fatto il pezzo con quello…”

Esatto.
“Stai cavalcando l’ondata del momento…” No, onestamente no. Io faccio sempre pezzi con chiunque. Nei miei dischi trovi sempre guest importanti così come il ragazzino che nessuno conosce. Faccio musica con le persone con cui mi trovo bene. Non è che sono andato a pescare L’aura perché l’ho vista nei video o l’ho sentita nei dischi.

Cosa mi dici di Salmo?
Salmo è un artista a mio avviso bravissimo. Lui fa un certo tipo di hip hop, quello che è legato ai suoi gusti musicali: ascolta hardcore, ha suonato o militato in gruppi punk e ska, però arriva dall’hip hop degli anni nostri, degli anni ’90, quello classicone,,. L’ho conosciuto, ci siam trovati bene, stiamo facendo un po’ di cose. Poi è chiaro che lui è uno dei personaggi del momento, ma a me la cosa non interessa. Avrei comunque collaborato con lui, fra dieci anni così come l’anno scorso, solo che l’anno scorso non lo conoscevo ancora.

Tornando ad “Ansia ansia”, che è un brano che racconta Milano, la tua città: cosa puoi dirci a proposito? Com’è la scena? Oggi Milano viene spesso indicata come capitale del rap italiano, vuoi per la presenza delle major discografiche, vuoi per la sua storia. Tu come ti trovi?
Ultimamente ci sono un sacco di belle situazioni per l’hip hop. C’è un sacco di fermento sul fatto che l’hip hop è la musica del momento, per cui “fa figo” fare hip hop adesso. Se uno ha il compagno di scuola che fa il rapper, magari ci prova anche lui, e magari è pure bravo. Noi siamo cresciuti in un periodo, quando abbiamo cominciato a fare musica a metà anni ’90, in cui era difficile avere degli esempi buoni, fatti da gente brava. C’erano i Sanguemisto, Neffa, ma erano tre o quattro, non è che c’erano 50 mc da prendere come riferimento. Adesso è diverso: le nuove generazioni hanno la possibilità di scegliere tra il classico, che resta comunque molto forte, il nuovo, il crossover come Fedez, e ci sono comunque tanti prodotti che sono validi. Poi ci sono gli mc che rimarranno mc tutta la vita, come Ensi per dire, che ha un grande impatto sul palco e che adesso è anche un personaggio che può avere anche qualcosa da dire in canali più ufficiali.

Quello che dico io è: si, ci sono tante cose che girano adesso, soprattutto a Milano, tante produzioni, tanti nuovi nomi, così come a Roma, così come a Napoli. Bisogna vedere però dove arriverà tutto questo, sarà necessario vedere fra qualche anno cosa sarà rimasto. C’è molto fermento ma poi non ci sono tante situazioni dove poi poter suonare. Milano è una città dove i concerti si fanno sempre fuori, in periferia, in Brianza o cose così. Ieri sera eravamo a giro per “Thori e Rocce”, però eravamo a metà tra Varese e Busto Arsizio, cioè un posto che uno dice: “Ma dove cazzo è?” Perché a Milano non ci sono gli spazi e la città soffre moltissimo di questa cosa. Questa cosa mi stupisce, però, per quanto si possa credere o no, a Milano c’è meno di quello che pensate.

Non trovi sia paradossale che Milano, la città delle major, la città della Universal, non offra poi posti per suonare?
Si, però non capisco bene il paradosso, nel senso che la Universal fa girare i propri artisti nei propri canali.

Beh tanti artisti si stanno spostando a Milano. Ghemon, ad esempio, è uno di questi.
Si, però son canali diversi. La major fanno girare gli artisti nei canali “soliti”. Se li devono mettere a fare un concerto li mettono comunque in un determinato posto. E ci sono delle grandi agenzie, come Livenation o Milano Concerti, che fanno questo a 360 gradi. Lo fanno con l’hip hop, lo fanno con Ligabue, lo fanno con la Pausini o Vasco Rossi. Si muovono determinate realtà con determinati numeri. Muovi mille persone, così come diecimila, così come centomila, però sono comunque canali diversi. Molti artisti poi hanno date indipendenti. Guè fa tre date a settimana da nord a sud e, per dire, la data ai Magazzini Generali di Milano, che è stata la più bella del tour, se la sono organizzati da soli, in maniera semi-indipendente.

Bisogna quindi sfatare questo mito che la discografia ufficiale aiuta la musica indipendente, questa è una gran cazzata. E’ la musica indipendente che sta aiutando le case discografiche a tenersi in piedi con gli ultimi colpi. Però è così che funziona: se un artista ha successo a livello indipendente vuol dire che ha anche un pubblico che lo segue, quindi è capace che un artista come Babaman fa un concerto a livello indipendente e porta comunque mille persone. Ne porta mille una volta, ne porta mille una seconda, e questo grazie solo al lavoro che ha fatto lui, o che abbiam fatto noi in passato.

A questo punto l’etichetta dice: “Dunque questo mi porta già mille persone, aspetta che lo prendo io…” E mette l’artista sotto contratto, con una formula che si chiama “a 360”, anche se io preferisco chiamarla “a 90”, perché vuol dire che loro curano tutti gli aspetti, ma anche che hanno tutto, dalle edizioni, alla produzione, a tutto il merchandising, quindi vuol dire che l’artista cede all’etichetta buona parte del ricavato. Io credo che questo ammazzi definitivamente la musica indipendente, che sia il passaggio in cui muore tutto il lavoro fatto da indipendente per darlo tutto nelle loro mani. Poi, il fatto che nella major ci siano anche persone molto in gamba, che sanno gestire bene gli artisti, beh, sai, quello è il loro mestiere.

Sarebbe bello però se, per una volta in Italia, qualcuno prendesse in mano la propria carriera musicale e ne facesse qualcosa di grande, diventando imprenditore di sé stesso. Jay Z è forse l’esempio assoluto di questa cosa. Lui ha cominciato a farsi i video da solo, a metter sulla strada la propria musica, e poi quando gli han proposto un contratto lui ha detto: “No, io voglio un contratto di distribuzione, però i soldi li prendo io.” Li ha reinvestiti, ancora e ancora, e poi dopo, certo non solo grazie a lui, Jay Z è diventato qualcuno. Però i soldi non li ha messi in mano a nessun altro. Questa è una cosa che in Italia ancora manca, ma che probabilmente arriverà.

Tornando a Milano ed alla sua scena: c’è qualche nome, qualche ragazzo emergente, che magari non abbiamo ancora sentito e che ci vuoi segnalare?
Mi prendi un po’ alla sprovvista. A Milano ci sono un po’ di ragazzi in gamba. C’è questa crew che si chiama Milanimale, che sta facendo cose con Mondo Marcio. C’è un produttore in gamba che si chiama A&R. E c’è un altro rapper, che si chiama Beng, che ho fatto rappare sul mio disco e che ha fatto questo pezzo, “300 barre”, che c’è su YouTube: lui è molto in gamba. C’è anche un altro ragazzo, che si chiama Mix Up e che conduce The Flow: è giovanissimo, forse ha 18 anni, e gira con tutti i vari coetanei come Rocco Hunt.

Quindi, insomma, di persone ce ne sono un sacco. Vedo tutti i giorni video di ragazzini di 15 anni che magari sono pure bravi. Si tratta di vedere dove riesciranno a portare l’intuito e l’attitudine che hanno. Non è facile crearsi una fanbase. A volte la cosa è casuale ed arriva prima la fama della credibilità artistica. Riprendo il discorso di Fedez: lui è il classico artista che fra cinque anni sarà probabilmente cento volte più bravo di quello che è oggi. Però adesso è già famoso, mille volte di più pamoso di gente che ha molta più esperienza. Perché questo è il meccanismo di internet: il passaparola.

Tornando invece sul discorso dell’hip hop, come giustamente dicevi si tratta di vedere se la cosa durerà. La tua impressione qual è? L’hip hop attaccherà nella cultura di massa? Oppure accadrà come negli anni ’90 con la bolla che prima o poi comincerà a sgonfiarsi? Come sono cambiate le cose? Oggi ci sono le condizioni perché la cosa possa funzionare?
Credo che l’Italia sia l’unico paese dove l’hip hop è arrivato quando si era già staccato dalla sue radici culturali. Quello che sta accadendo da noi adesso in Francia è avvenuto 15 anni fa. Una cosa come “Spit” (il contest di Mtv dedicato al freestyle) è un format che in America c’era in televisione 15 anni fa, in Germania, in Olanda c’era sei o sette anni fa, in Croazia l’hanno fatto prima. In Polonia, per dire, c’è più roba che in Italia. Considera quindi che da noi arriva tutto dopo: siamo veramente gli ultimi del carrozzone. Detto questo, sicuramente l’hip hop non è adesso dov’è perché ha attecchito a livello culturale.

Quello che intendo è che nel resto dell’Europa l’hip hop è stato sostanzialmente un momento di aggregazione socio-culturale, cioè varie etnie, varie tipologie di razze e persone, si sono unite perché l’hip hop era un po’ la valvola di sfogo di tutto ciò che veniva ghettizzato nei canali ufficiali. In Italia è il contrario: c’è l’hip hop che ascoltiamo tutti i giorni, che è quello che puoi sentire in radio, che c’ha un milione di views su YouTube. E poi c’è la serata hip hop in discoteca, alla quale però non va nessuno, solo i latini che vogliono ballare il reggaeton. Oppure c’è la serata dove si va solo a rappare, dove tutti rappano, poi dopo c’è il dj che mette dei bei dischi, però se ne vanno tutti perché l’hip hop l’han già fatto.

Quindi, secondo me, in Italia siamo un caso clinico. Ed è proprio una cosa culturale. In Italia ci sarà sempre Sanremo, sempre! Moriremo che ci sarà ancora quella roba lì. Perché? Perché è così, perché siamo legati a queste origini. Però sarebbe bello che almeno il nostro hip hop fosse una roba in grado di rimanere lì, al livello a cui è. Tipo che se oggi c’è Emis Killa, mi auguro per favore che ci sia anche fra cinque anni, perché lui può essere considerato un artista dotato, che adesso fa musica di un certo tipo, e se fra dieci anni continuerà a scrivere bene come fa oggi farà sicuramente della musica molto più figa, perché essendo più maturo scriverà delle robe più fighe. Questo almeno è quello che spero io. Tutti gli artisti che sono arrivati ad un livello tale di maturazione da esser popolari, come i Dogo, Fibra o Mondo Marcio, è tutta gente che fa rap da 15 anni, non è che ha comiciato ieri.

La tua analisi è lucida ma tremendamente impietosa. Come si esce da questa situazione?
Il mio pensiero è: “Ma chi se ne frega!” Perché alla fine è inutile fare tante discussioni, tante parole, tanti confronti: c’è un sacco di musica. Secondo me uno dovrebbe ascoltare la musica che gli piace, senza grossi pregiudizi o senza grossi imbarazzi. Io vengo da un periodo dove se tu ascoltavi hip hop, ma ascoltavi anche qualcos’altro, eri considerato uno sfigato. Dovevi ascoltare solo hip hop. Se ti compravi un cd di un gruppo house, non lo dovevi dire a nessuno, sia mai che la gente potesse pensare che tu eri uno di quelli che ascoltava più robe… Da una parte questo ci ha resi convinti di quello che facevamo, dall’altra parte ci ha chiuso un sacco mentalmente, perché cresci in un ambiente dove ti fanno una testa così.

In realtà, in America, non si son mai fatti tutte queste paranoie. Questa è una roba europea. Per me ognuno deve ascoltare quello che gli piace. Ovviamente, sempre secondo me, la musica va di pari passo con le persone. Quindi se c’è un artista intelligente farà tendenzialmente musica interessante, perché un artista intelligente scriverà comunque delle cose intelligenti. E lo si capisce dai testi, dall’attitudine, da tante cose. Automaticamente sarà seguito da gente intelligente perché è così. Insomma, io penso che la musica parla da sola: si tratta di vedere se la musica intelligente avrà la predominanza in Italia.

 
Per saperne di piu’…
Il sito ufficiale: http://www.bassimaestro.com
Lo studio di Bassi: http://www.pressrewindstudios.com