Due settimane fà, all’età di 54 anni, è morto Thomas Kinkade. Tu mi dirai: e chi diavolo era questo signore? Risposta: era il pittore contemporaneo più popolare del mondo. Era un artista californiano che nel corso una carriera relativamente breve è riuscito a vendere milioni e milioni di quadri. C’è chi ha stimato che oggi in almeno una casa americana su venti c’è appesa una sua opera.
Tu, a questo punto, se di arte ci capisci appena appena qualcosa, ti starai grattando la testa, perchè questo pittore non l’hai mai sentito nominare, e comunque uno rimane parecchio incredulo all’idea che un essere umano, per quanto talentuoso, possa dipingere milioni di quadri.
Beh, questa e’ una storia strana. Ma tutta vera…
Kinkade dipingeva in uno stile talmente kitsch e zuccheroso da provocare immediati conati di vomito in qualsiasi estimatore, anche superficiale, dell’arte moderna e no. All’interno di quel sistema — fatto di musei, critici, gallerie, case d’asta, istituti accademici — che oggi decreta il valore della “fine art”, lui era considerato meno di una nullita’, un personaggio oltre il limite del disgustoso. Che tu non l’abbia mai sentito citare è quindi normalissimo. Ma fra la gente che raramente mette piede in un museo, le sue opere scatenavano passioni inaspettate, tanto che all’indomani della sua scomparsa sul web sono apparsi centinaia di messaggi addolorati.
Dopo essere cresciuto con la madre, in relativa povertà, a Placerville nella California settentrionale, aver studiato arte con scarso successo in un paio di univerità locali, vagabondato per l’America sui treni merci, e lavorato a Hollywood come pittore di background per cartoni animati, Kinkade aveva abbracciato la fede degli evangelici cristiani, decidendo di aggirare l’elitismo della scena artistica contemporanea, per dedicarsi invece a un tipo di pittura capace di esprimere la bellezza del mondo e la bontà divina, prendendo come esempio Walt Disney e Norman Rockwell.
“La gente che appende alle pareti i miei lavori,” aveva spiegato lo stesso artista quasi un decennio fà, “sceglie di appendere alle pareti i valori in cui crede: fede, famiglia, casa, semplicità di vita, la bellezza della natura, quiete, tranquillità, pace, gioia, speranza.” Non solo: per rendere la sua arte accessibile al maggior numero di persone possibile, Kinkade aveva creato l’equivalente di una catena di montaggio industriale, impiegando centinaia di dipendenti per produrre un fiume senza fine di stampe e serigrafie, che poi venivano “ritoccate” a mano per rendere ogni pezzo piu’ o meno unico ed originale, creando cosi’ un ventaglio di prodotti con prezzi che partivano da poche centinaia di dollari per arrivare a decine di migliaia.
La Factory di Andy Warhol, tanto scandalosa ai suoi tempi, a paragone del meccanismo messo in moto da Kinkade era una botteguccia di dilettanti. Alla fine degli anni ’90, non solo Thomas Kinkade, il pittore della luce® era un brand commerciale registrato, ma addirittura una società quotata in borsa, con una rete di centinaia di gallerie monomarca in franchising, un agressivo programma di televendite, e vari accordi di licensing con produttori di articoli da regalo e di arredamento per la casa. L’apice della febbre commerciale arrivò con l’ultimo boom immobiliare, quando Kinkade riuscì addirittura ad appiccicare il suo nome — in puro stile Disney — ad una serie di lottizzazioni, con cottage che riproducevano l’immaginario kitsch dei suoi quadri, in vendita per cifre che sfioravano il mezzo milione di dollari.
Bene: stai osservando le riproduzioni dei quadri che illustrano questo articolo, vero? Sei un attimo sconcertato, no? Forse disgustato? Beh, non è che a me questa roba piace. Anzi… Trovo però che il surreale successo commerciale di Kinkade ci ponga almeno un paio di domande intriganti. La prima in un certo senso l’ha messa sul tappeto lui stesso, quando ha osservato che ci sono musicisti che vendono milioni di album, scrittori che vendono milioni di libri, registi che vendono milioni di biglietti d’ingresso al cinema, ma prima del suo arrivo sulla scena non si era mai visto un pittore capace di vendere milioni di quadri. Perchè? O più precisamente: perchè in qualsiasi altro campo della creatività la produzione di un best seller viene osannata, mentre nell’arte no?
Se prendiamo come termine di paragone la musica, è ovvio ad esempio che c’è un mercato più pop, più commerciale, e tante scene più underground. Ma il confine fra questi due mondi è molto labile e i ruoli cambiano in continuazione. Il punk o l’hip hop nascono come fenomeni alternativi, sdegnati dalle radio e dalle grandi etichette, poi vengono abbracciati dall’ultima generazione, scalano le hit parade, e adesso sono roba che viene usata come colonna sonora nei supermercati o nei commercial in Tv (ok, in Italia magari questo ancora non succede ovunque, ma in America decisamente sì!).
Quello che voglio dire è che nella musica, così come nel cinema o nella letteratura, la capacità di un artista di influenzare e relazionarsi con i gusti dell’audience di massa, producendo best seller, viene considerata senza alcun problema uno dei criteri che ne determina il genio. E nella “fine art”? Tutto il contrario! E’ normalissimo sentire critici e curatori descrivere il grande pubblico come un’entità tutto sommato cerebrolesa, che deve essere “educata”, affinchè possa davvero “comprendere” e “apprezzare” il valore di quello che vede dentro ad un museo o una galleria.
Questo elitismo contagia la definizione stessa della figura e del ruolo dell’artista. La storia della musica moderna — alla faccia di tutti i compositori di musica atonale o dodecafonica celebrati dagli esperti (e solo da loro!) — è piena di star che sono emerse dalla marginalità, dai ghetti, senza educazione formale, a malapena capaci di strimpellare un accordo. Nella “fine art”, invece, se non hai frequentato le scuole giuste, se non sei capace di citare gli esoterismi teorici dei tuoi predecessori, se insomma il tuo lavoro non si presta ad un’analisi critica più o meno masturbatoria, vieni relegato in un ruolo di mera curiosità (ci sono apposite etichette di serie C, come “folk art”, “naif art”, “outsider art”, l’arte dei matti, l’arte dei selvaggi, e ci sono ruoli di serie B, come “illustrator”, “commercial artist”, “comic artist”).
La seconda domanda che qui salta fuori è quindi: di fronte ad una scollatura così radicale fra il “gusto” degli esperti e quello del pubblico di massa dell’arte, che pensa quest’ultimo? E qui mi ritorna in mente un divertentissimo progetto, realizzato da Komar e Melamid, a metà degli anni ’90, intitolato “Painting by numbers”.
Vitaly Komar e Alexander Melamid sono due artisti, ormai belli stagionati, cresciuti nella vecchia Unione Sovietica, che dopo un’educazione incentrata sull’estetica del realismo socialista, furono molto attivi nei circoli della dissidenza moscovita, per poi emigrare negli Stati Uniti, diventando degli spassosissimi provocatori di stampo concettualista (i due hanno purtroppo smesso di collaborare nel 2003). Nella lono nuova patria adottiva Komar e Melamid furono subito colpiti dall’elitismo aristocratico della scena artistica newyorkese. Adottando quindi un approccio tipicamente americano, i due decisero di ingaggiare un’agenzia di sondaggi, commissionandogli una bella ricerca di mercato, per capire in modo “scientifico” che tipo di arte la gente ama davvero.
I risultati, elaborati interrogando un campione statisticamente rappresentativo della popolazione americana, dimostrano che la stragrande maggioranza del pubblico pensa che il colore migliore in un quadro sia il blu, seguito a ruota dal verde. Uno stile “tradizionale” e’ di gran lunga preferito ad uno “moderno”, una composizione semplice ad una complessa, le curve soffici agli angoli spigolosi, il realismo all’immaginario, le pennellate ben visibili alle superfici sfumate. Sempre secondo i dati del sondaggio i paesaggi sono enormemente piu’ popolari degli interni, con una marcatissima preferenza per scene che includono fiumi, laghi o mari, figure umane e fiori, animali selvatici invece che animali domestici, un’atmosfera gioiosa invece che seria.
“The Most Wanted Painting” in America di Komar e Melamid.
Ora, tutto questo ti potra’ sembrare una colossale presa per i fondelli, ed e’ verissimo che il progetto di Komar e Melamid è bello proprio perchè ci mostra quanto sia assurda la pseudoscienza dei sondaggi d’opinione. Ma dietro ad ogni numero, anche impreciso, una buona dose di verita’ rimane. E Komar e Melamid hanno deciso di usare come spunto proprio quelle indicazioni per dipingere “The Most Wanted Painting” in America, un assemblaggio di tutte le preferenze visive raccolte fra la popolazione (lo vedi riprodotto subito sopra).
E Thomas Kinkade? Sono sicuro che lui di questi sondaggi non ha mai sentito parlare. Eppure, i suoi dipinti, se li guardi bene, soddisfano la maggioranza delle preferenze espresse degli intervistati. Ancor piu’ del “Most Wanted Painting” di Komar e Melamid, l’arte di Thomas Kinkade è l’arte del popolo. E in questo, forse, non c’e’ nulla di nuovo. Michelangelo, dopo tutto, in un era analfabeta, senza cinema, internet, televisione, cos’altro non era se non un pittore di cartelloni pubblicitari? Pubblicizzava le glorie della Chiesa, la supremazia del papato, il potere dei suoi sponsor. Thomas Kinkade e’ il suo equivalente nell’era della democrazia e del libero mercato.