Il grande Roger Erbert (il miglior critico cinematografico della storia degli USA) era solito ricordare quanto fosse vitale, per uno del mestiere, tenere presente una sorta di “scala dei valori” quando ci si apprestava a giudicare un film, in particolar modo un film di genere.
Diceva: “se devo giudicare un film di supereroi, non potrò metterlo -entro certi limiti- in competizione con Quinto Potere di Wells, ma dovrò utilizzare una scala in cui lo 0 è rappresentato da Blade III e il 10 dal Superman del 1978 di Dickie Donner“.
Ho pensato proprio a queste sagge parole ieri sera, mentre uscivo -un po’ mestamente- dal cinema dopo la visione del tanto atteso diciottesimo capitolo del Marvel Cinematic Universe: dove dovrei collocare questa pellicola in una scala che va dallo 0 (Suicide Squad) al 10 e lode con bacio accademico (Guardiani della Galassia Vol.1)?
E la risposta è, tristemente, nel mezzo.
Un “mezzo” senza -troppa- infamia ma purtroppo senza chissà quali lodi sperticate, le stesse che invece il film del giovane filmmaker afroamericano Ryan Coogler sta attirando senza soluzione di continuità in patria.
Il film dedicato alle avventure soliste del Re di Wakanda T’Challa è una clamorosa occasione sprecata. Un film dalla fortissima identità politica che viene però sprecata in discorsi superficiali e “tirati via” fra una scena e l’altra.
La regia dello stesso Coogler poi, qui al suo terzo film, risulta farraginosa e poco omogenea nel trattamento dei cambi di scena e nel pacing della trama.
A livello di sceneggiatura poi, alcune delle scelte dei protagonisti risultano affrettate e lievemente ingenue, in particolare il “cambio di fazione” di uno dei più fidati amici di T’Challa si risolve in una singola scena che, per quanto forte ed inaspettata (TOTALMENTE inaspettata), non ha la profondità necessaria a giustificare un voltagabbana di tale portata.
Il carisma della “sezione maschile” del film poi, soccombe miseramente sotto il peso della controparte femminile, molto più potente e d’impatto.
In particolar modo i personaggi di Danai Gurira e Lupita Nyong’o sono il vero highlight del film: due donne forti e nobili, caratterizzate da posizioni etiche e politiche diametralmente contrapposte ma in egual misura affascinanti e “potenti”.
Aggiungete una Angela Bassett che, a sessant’anni suonati ancora dà parecchie piste alle colleghe più giovani, ed una Laetita Wright che con la sua giovane freschezza non ha mai mancato di mettermi un timido sorriso sulla faccia (nonostante le persone con le quali sono andato al cinema mi hanno giurato di volerla strangolare) e avrete la fotografia di un film in cui le donne, al netto di muscoli disumani e cicatrici da duro, fanno decisamente il culo ai maschietti.
Cosa si salva di questo Black Panther allora?
Molte cose in realtà, ma non sono sufficienti a ribaltare quel senso profondo di delusione che mi ha colto ieri sera e non mi ha ancora abbandonato (ehi, io ci tengo al MCU. Chiamatemi weirdo, frega un cazzo).
Si salvano le sequenze e gli inseguimenti Bondiani, si salva -nonostante tutto- un Chadwick Boseman che fa di tutto per essere contemporaneamente regale ed umano, un Andy Serkis sempre irresistibile ed un comparto visivo a tratti strepitoso (il modo, particolarmente distonico, con cui viene rappresentato il Wakanda in opposizione all’ambiente “classico” africano mi ha lasciato senza fiato) nonostante qualche “deragliamento” -pun intended per chi ha visto il film- nella parte finale e…nei rinoceronti.
Si salvano anche le due scene post-credits, la prima dotata di una maturità politica immensamente più forte e significativa di tutto il resto del film e la seconda che, seppur risicatamente, dà quel colpetto finale allo stomaco del Marvel zombie in attesa spasmodica del Blockbuster più ambizioso di tutti i tempi.
Il Marvel Cinematic Universe è ormai un organismo a parte ed unico nel panorama cinematografico mondiale, un progetto ambizioso che -con buona pace degli haters- ha sconvolto il landscape della celluloide per sempre. Un progetto che sta maturando e, dopo 10 lunghi anni, inizia a prendersi dei rischi che vanno oltre il comparto meramente artistico e a fare le prime scelte. Ad impegnarsi in “cause” adulte ed importanti, a fare i primi errori e a stare sul cazzo a qualcuno.
Finchè sei bimbo piaci a tutti, perchè i bambini…beh, piacciono a tutti (a meno che tu non sia uno psicopatico), quando diventi adolescente le cose cambiano.
Black Panther è il primo errore adolescenziale del progetto di Kevin Feige, è il classico diciassettenne/diciottenne con buoni propositi e grandi capacità che prende a cuore un tema adulto e non ci combina un granchè.
Ma chi siamo noi per non perdonare un ragazzino talentuoso?
Sminchiatemi Infinity War però e vi vengo a prendere.