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Portishead @ Saschall 31/03/08 Firenze



Erano dieci anni che aspettavo ‘sto concerto: uno spettacolo in grado, per una sera, di fermare il tempo, facendomi volare coi ricordi al ’97, anno di uscita del secondo, omonimo disco della band inglese, quando non avevo ancora 20 anni ed andavo a scuola a Bagno a Ripoli (e qui a qualcuno fischieranno le orecchie..).

Ah che belli gli anni ’90, il grunge, l’hip hop – quando ancora si poteva sentire – il crossover, il trip hop.. il trip hop. Buffa definizione questa, termine assolutamente mediatico e scollegato dalla realtà. Secondo me non è mai esistito, era semplicemente hip hop con una battuta più lenta, testi depressi o depressivi ed un accento inglese. Sarà perché all’epoca c’erano le Spice Girls (e anche oggi), sarà perché un giornalista si deve inventare qualcosa per campare (e anche oggi, e io lo so bene) ma all’epoca faceva tanto fico il trip hop.

Cioè se ti sentivi Tricky stavi proprio avanti. Eri cool. Cosa resta oggi di quella stagione? Nulla o forse tutto, questione di punti di vista. Tricky si è bollito, i Massive Attack hanno perso pezzi per strada, i Portishead ce li ritroviamo dopo 10 anni di silenzio in cui tutto quello che ci è stato dato di sentire è il disco della Gibbons con Paul Webb (a nome Rustin’ Man) e qualche pezzo ready for the dancefloor del dj Andy Smith (sentire, a questo proposito, “sounds start rockin’”).

E basta?

Ricordo quando verso l’inizio del millennio sfogliavo le pagine dell’allora mia rivista preferita, la più illustre del panorama musicale italiano, il cui nome inizia con le R e finisce con la E (no, non è Rolling Stone!) dove si dissertava sulla morte del trip hop. Il trip hop è uno schifo, era solo una moda di merda, noi ve l’avevamo detto e cazzate del genere. Nel mentre che leggevo questa roba ascoltavo le nuove uscite della Ninja Tune (sempre sia lodata!) e mi domandavo di cosa cazzo stessero parlando. In che mondo vivessero. Ma come finito? Siete voi che, da giornalisti, seguite le mode pur di vendere più copie, al costo di rimangiarvi le vostre stesse parole anni dopo, o sono io, coglione, che mi permetto di vedere le cose in modo diverso, senza considerare ogni gruppo un prodotto da infilare in un contesto per esser meglio venduto ad un pubblico annoiato?

I Portishead, figli di una moda che non hanno mai voluto, come tutti i prodotti di breve durata mediatica hanno avuto esposizione, sovraesposizione e poi il nulla.

Il mese prossimo uscirà “Third” il nuovo disco del gruppo (esattamente il 28 aprile ma se non sapete aspettare si può già trovare in rete) ed io andrò a comprarmi il numero della suddetta rivista per vedere cosa si inventeranno. Se nel testo trovo la parola “trip-hop”, giuro che spacco tutto.

Fine primo tempo.

Pisciatine veloci in bagno. Cicchino per i fumatori.

Secondo tempo.

I Portishead si presentano in formissima al Saschall di Firenze, sul palco alle 21,30 come da copione. Iniziano il concerto con un brano del nuovo disco per poi ricevere un’ovazione stile-curva-Fiesole-dopo-gol-di-Mutu sulle prima note di Mysterons, brano tratto dal fortunato disco d’esordio.

Il concerto, che dura un’ora e mezza o poco più, propone quasi tutto “Dummy” e buona parte del secondo disco assieme ovviamente a tutti i nuovi brani che hanno un piglio più elettronico rispetto al suono a cui ci avevano abituato nel corso degli anni: ci sono più percussioni ed anche l’andatura veleggia più spedita ricordando, a volte, certe cose dei Radiohead periodo Amnesiac.

Da segnalare chiaramente tutte le hit del passato quindi “Sour Times”, “It could be sweet”, “Glory Box” tratte dal disco d’esordio (che era fatto perlopiù con campionamenti, alcuni anche molto “ingombranti”, ed era decisamente più accessibile) e diverse parentesi tratte invece dal secondo disco (che invece era suonato con strumenti e non aveva il “pezzo da classifica”).

I Portishead svolgono il loro compitino al meglio, realizzando ogni canzone esattamente come sul disco, con una freddezza chirurgica che si ritrova anche nel loro modo di stare sul palco.

Beth Gibbons è in grado di ammutolire tutto il Saschall col suo canto melodioso e disturbato ma allo stesso tempo incapace di dialogare col pubblico italiano senza che le si rompa la voce dall’emozione.

Al di là di questo, benissimo sia lei che Utley e menzione d’onore per il già citato Andy Smith, versatile one man band in grado di passare con disinvoltura dagli scratch (che però eran campionati, eh eh!!) alle percussioni.

Per una sera il tempo si è fermato davvero e da ieri ho addosso questa sensazione felliniana da Amarcord che non mi abbandona più.

Sarà per questo che è tutto il giorno che mi ascolto gli Alice in Chains?

Nostalgia canaglia.. passo e chiudo.