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Profilo di Clio



Josif Aleksandrovic Brodskij, uno dei maggiori poeti russi contemporanei, è l’autore di questa splendida raccolta di saggi i cui temi spaziano dal fascino dei viaggi al tedio della quotidianità, dalla funzione edificante degli scrittori alla condizione umanamente degradante dell’esilio.

E’ Clio, la musa del Tempo, la musa della Storia, a legare in un intreccio di senso i numerosi scritti fra loro, in una continua riflessione sul passato, di giudizio sul presente e di previsione (spesso cupa) del futuro.

Brodskij esordì a soli diciotto anni pubblicando alcune sue poesie in un rivista clandestina; era il 1958. Ad accorgersi del suo estro poetico fu la grande poetessa Anna Achmatova, che lo sostenne nella sua formazione artistica e che cinque anni più tardi gli dedicò una delle sue raccolte.
Condannato più volte dal regime sovietico, Brodskij fu infine arrestato con l’accusa di parassitismo (sì, avete capito bene!), e condannato a cinque anni di lavori forzati.
Celebre la sua risposta al giudice, trascritta negli atti del processo del 1964:

GIUDICE: “Qual è la tua professione?”
BRODSKIJ: “Traduttore e poeta”
GIUDICE: “Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti?
BRODSKIJ: “Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?”.

Ma come sappiamo non esiste peggior sordo di chi non vuole sentire, e durante un regime i sordi sono la maggioranza. Tornato a Leningrado, sua città natale, si dedicò alla traduzione di poeti inglesi del calibro di John Donne e Gerard Hopkins. Nel 1972 l’esilio: viene costretto a emigrare e si rifugia negli Stati Uniti, fino alla morte avvenuta nel 1996 a New York a causa di un attacco cardiaco.

Tra i saggi presenti nel “Profilo di Clio” è di particolare interesse e fascino (per il sottoscritto, naturalmente) quello declamato in occasione del conferimento del Premio Nobel per la letteratura, da lui ritirato nel 1987, dal titolo “Un volto non comune”.

Non comune è il volto della Musa di Baratynskij, importante poeta russo dell’Ottocento, che Brodskij riprende per attaccare la massificazione che il comunismo, leninista prima e stalinista poi, aveva messo in atto riuscendo solo a tramortire ogni slancio vitale, ogni creatività e diversificazione, ogni pluralismo necessario alla sopravvivenza intellettuale e spirituale di un uomo, di una nazione e del mondo intero.

Di chi è allora questo volto non comune? Della “arte in generale, della letteratura in special modo e della poesia in particolare”, come dirà lo stesso Brodskij, “giacché là dove l’arte è passata, dove una poesia è stata letta, costoro (“i padroni delle masse” n.d.r.) scoprono, in luogo dell’atteso consenso e dell’unanimità prevista, solo indifferenza e polifonia”.

Ed ecco che l’arte, e la poesia come sua forma eccelsa, ha il compito di demassificare, di far vedere un fiore non con gli occhi di tutti ma con gli occhi di ognuno.
“Ai nostri giorni”, continua il poeta, “è piuttosto diffusa l’idea che uno scrittore…debba usare nella sua opera la lingua della strada, la lingua della folla.
Nonostante la sua apparente democraticità…questa pretesa è semplicemente assurda e rappresenta un tentativo di subordinare l’arte…alla storia.

Solo se abbiamo deciso che per l’homo sapiens è venuto il momento di fermarsi nella sua evoluzione, solo in questo caso la letteratura dovrà parlare la lingua del popolo. In caso contrario sarà piuttosto il popolo a dover parlare la lingua della letteratura”.
Di un’attualità intramontabile le sue parole sul primato della cultura nella valutazione delle competenze socio-politiche di un cittadino all’interno di una nazione.

Dovremmo chiedere a coloro che pretendono di governare una nazione, dice Brodskij, non tanto cosa ne pensano di politica estera, ma piuttosto cosa hanno da dire su Dickens o su Dostoevskij, giacché una cosa ha accomunato tutti i grandi dittatori della Terra: “L’elenco delle loro vittime era infinitamente più lungo dell’elenco delle loro letture”.

Il delitto della non-lettura viene pagato con tutto l’essere di un uomo e se quell’uomo deve decidere del destino dei suoi concittadini, verrà pagato dall’intera nazione.
Non posso fare a meno di riflettere sul fatto che se questo principio venisse applicato sui nostri politici ci troveremmo ad affrontare il problema di una nuova categoria di disoccupati: i parlamentari.

Indimenticabile la chiusura del saggio, dove traspare l’amore di Brodskij per la poesia e per la vita, divise da una linea di confine che si fa via via sempre più inesistente: “Chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo.

Una volta che si è provata questa accelerazione non si è più capaci di rinunciare all’avventura di ripetere l’esperienza; e si cade in uno stato di dipendenza, di assuefazione a questo processo, così come altri possono assuefarsi alla droga o all’alcol.

Chi si trova in un simile stato di dipendenza rispetto alla lingua è, suppongo, quello che chiamano un poeta”.

Pubblicato anche su: www.055news.it