Foto di Pamela Bernardi
È incredibile come l’ascolto di un album dal vivo cambi completamente il giudizio e il pre-giudizio, che mi ero fatta da un fugace ascolto in streaming.
È altrettanto incredibile che io mi stupisca tutte le volte per questa ovvietà.
Ma in questo caso vale la pena sottolineare questo aspetto.
Vasco Brondi non è uno che ai concerti chiacchera tanto.
Sale sul palco, canta e suona, a volte ci delizia con brevi testi, suoi o di altri, che legge da fogli posati sul palco davanti a sé.
La concentrazione con cui fa tutto questo sottolinea la profondità del suo lavoro e, probabilmente, del suo essere.
Lui, in un maglioncino impacciato, scazza sull’attacco di un pezzo, ricomincia e ironizza sul fatto che è una canzone difficile, perché ha 3 accordi invece dei soliti 2.
È l’unico momento in cui ha interagito con il pubblico.
È cresciuto Vasco, è diventato un professionista, ha sbozzato il suo talento, ma ha conservato quella capacità di farti visualizzare gli scenari urbani che fanno da sfondo alle storie che racconta.
Storie di gente che vive in un mare di guai, perché non è la droga, non è il sesso e nemmeno il rock n’roll…è carattere.
Storie di disperazione che disperatamente non soccombe a se stessa, perché, citando Leo Ferré, “La disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità”, da cui il titolo dell’album.
È bello vedere questo tipo di musica in un teatro: la semplice scenografia, un condominio addormentato con le finestre che si illuminano alternativamente, su cui si proiettano le luci e le ombre dello show, la piccola orchestra, fra cui un violoncello che sottolinea sapientemente certi abissi, scandagliandoli con lunghi colpi di bassi.
Vivo la musica come qualcuno vive la chiesa. Porto a lavare la mia coscienza e il mio karma deturpato ad un concerto.
L’altra sera dall’Odeon sono uscita pulita.
Bloody strudel