Le frasi rassicuranti hanno il potere di mettermi in allarme, perché ovvio, se qualcuno sente il bisogno di dirmi che andrà tutto bene, vuol dire che c’è la possibilità che succeda l’esatto contrario.
Così l’insegna luminosa Every is Going to Be Alright, che campeggia sulla facciata della Stazione Leopolda, suona più come un monito che come un invito ad entrare.
Ma chi mi avverte è Martin Creed, di cui, in qualche modo, mi fido, quindi, noncurante la mia congenita allergia alle maschere di fondotinta, parrucchini e parrucconi “pittaioli”, decido di assistere alla grande parata che la Fondazione Trussardi, complice Pitti Discovery, ha deciso di offrire al pubblico fiorentino.
Purtroppo la luce al neon non è stata usata solo come mezzo espressivo, ma viene anche scelta come illuminazione globale di tutta la mostra e, sarà l’abitudine alla luce soffusa che di solito ci accoglie nella navata centrale, non mi fa un bell’effetto.
Ma sotto quella luce piatta c’è il Best of della lungimirante produzione della Fondazione milanese, a cui in qualche modo sono già grata per averci dato questa grande occasione.
Si parte con il gigantesco ready-made di Elmgreen e Dragset, che fanno sbucare dal pavimento una Fiat Uno e una roulotte, parodia del turismo di massa e forse della fantasia che oggi ci vuole per permettersi una vacanza.
A seguire la non troppo velata metafora di Pawel Althamer, che rappresenta se stesso con un gigantesco pallone aerostatico; peccato che l’opera è stata pensata per volare in spazi esterni, mentre qui la troviamo costretta e sgonfia, schiacciata tra un’inutile pedana e la struttura del tetto.
L’irriverente Paul McCarthy materializza in silicone rosa la sua opinione su G.W. Bush, sperando di indorargli la pillola o, più probabilmente, per ridicolizzare maggiormente la scena.
Stordita già dalla concentrazione di opere culto, o forse dalle folate di profumo eccessivo che emanano i “pittaioli”, entro in fase onirica e mi incanto davanti alle visioni fiabesche di Fischli e Weiss: l’orso e il topo che zompettano a Palazzo Litta mi accompagnano fino alla casetta di pane di Urs Fischer, che esprime la decadenza insita nell’umana specie e la caducità del nostro operato.
L’allestimento della mostra è volutamente tematico e concentra nella navata centrale le opere più ironiche e “leggere”, relegando quelle più intime e profonde nelle stanze laterali.
Il lamento del sassofonista di Anri Sala fa da accompagnamento funebre alla veglia del doppio cadavere di Maurizio Cattelan, i delicati video di Tacita Dean sono un ottimo cuscinetto per poter affrontare poi le grottesche visioni di John Bock, il surrealismo impresso vividamente nelle foto di Paola Pivi fa da contrappunto alle immagini sfuocate di un ricordo nel racconto intimo di Darren Almond.
Poi, uno dei sorridenti stuart, posti a controllo dell’incolumità delle opere, ammicca più del dovuto, si muove più del dovuto e… decisamente si spoglia più del dovuto!
“Signore e Signori, questo è un Tino Sehgal del 2002”.
Bloody Strudel