Lo dichiaro dall’inizio: questo è un commento positivo. Positivo e oscuro, come il disco in questione.
MoMA, in effetti, è proprio il lavoro che ci si aspetterebbe dall’unione della penna e la voce di Blo/b con le produzioni di Gionni Gioielli, ma meglio. In questo articolo troverete informazioni sul disco, parole di me medesimo e degli autori che hanno risposto alle mie domande e il primo brano, concesso a Gold in esclusiva prima dell’uscita dell’opera. Indice fornito, possiamo iniziare.
Come il titolo suggerisce, quella che si affronta è una visita guidata tra le sale del museo ideato dalle “Daring ladies” nel 1928 con lo scopo di essere il primo e più importante luogo al mondo in cui trovare l’arte moderna, cioè quella ancora non compresa. L’ambizioso obiettivo era liberarla dal dilemma della nuova bellezza, matematicamente criticata e disconosciuta alla nascita. Nessuno, nel periodo iniziale di ogni nuova arte, sa se in ciò che scopre risieda veramente del valore oppure no, finché si crea una separazione generazionale: alcuni la assimilano e vedono qualcosa in più rispetto a chi grida allo scandalo storico. Poi un giorno, tra i rumori del mondo, questa si impossessa all’improvviso della cultura e dei desideri di tutti, senza un motivo apparente. E’ la storia dell’arte da quando è stato creato il primo canone, per questo lunga vita ai MoMA di tutto il mondo.
E anche l’essenza newyorkese si respira, principalmente nei beats, scuri, intrisi di un crocevia di musiche diverse e smog, proprio come Manhattan e un po’ come la Milano da cui si pensa all’America. Voci narranti spiegano all’ascoltatore a volte la storia degli artisti coinvolti (ognuno dei 9 pezzi è dedicato ad un modernista), a volte la storia dell’arte in senso lato in pieno stile gioielliano. In mezzo a questi incroci metropolitani sta Blo/b che scrive e rappa in un unico flusso. Pregustate l’atmosfera di questo disco, occhio ai polmoni, non ve l’hanno ancora detto? Esce domani.
Da dove nasce, dunque, l’idea del concept di MoMA?
Blo/b: Dalla mia grande passione per l’arte moderna. Dal fatto che nell’arte moderna è più importante tutto il ragionamento alla base del risultato stesso. Ciò rispecchia questo lavoro di sample tagliati con l’accetta, barre su barre crude senza bridge, strutture e ritornelli “catchy”. Una cosa andata persa che noi abbiamo deciso di far tornare a galla. Tornare così indietro all’essenza da fare il giro e suonare freschi: una specie di “Effetto Pacman” da terrapiattista applicato alla musica.
Al fine di rendere più facile per me e più avvincente per voi la trattazione di un’opera che non avete ancora potuto ascoltare, inizio col regalarvi il brano d’apertura Taki 183, la prima tag scritta su muro in modo seriale. Una chitarra elettrica squarcia il sipario prima dello scrosciare metallico dei piatti e una voce sciamanica che ricorda quella di “Buio”: si parla di graffiti, il piglio è da tutto o niente. E’ un attacco ai compromessi stilistici dell’arte, che porta a quello che viene chiamato con tagliente efficacia “soft style”. E’ soprattutto, come tutto il disco, una dichiarazione di attitudine, ascoltatelo, poi ce lo spiegheranno i diretti interessati.
Le voci a fine pezzo sono di writers storici della scena milanese: Mure Bsquad, Tawa 16k, Erics Tdk, Rash dei Lords of Vetra, Guen Dcn.
“Voglio essere Vulcan mica un cazzo di Keith Haring”
In Taki 183 viene detto “la street art non esiste”, rientra tutto in una perdita di attitudine e contemporaneamente nella commercializzazione di cose che non dovrebbero essere soggette alle regole del mercato?
Blo/b: Onore a chi guadagna con la musica innanzitutto. Chi ha un pubblico e vende e vive della propria musica ha ragione. Stop. Sicuramente più di me. Non me ne frega un cazzo di fare guerre “Trap VS Rap”, “Underground VS Commerciale” e stronzate musical- populiste simili. Quella frase rientra nel fatto che tutti idolatrano la cosa più facile da idolatrare. Il lato più rassicurante e vendibile. Io ho sempre preferito il lato oscuro, sporco e scomodo delle cose: milioni di volte più affascinante e interessante. Voglio celebrare i rinnegati, i sottovalutati e i messi all’angolo. Ho più empatia con questo lato della barricata perché ci sono nato, ci sono passato e sicuramente tutt’ora non faccio parte della faccia più “facile” di questa medaglia. Non mi sento ne’ una vittima della non meritocrazia ne’ un sottovalutato. Faccio questo perché è quello che amo fare e lo difendo.
Gioielli: Io credo che se uno viene pagato per la sua arte dovrebbe giustamente prendersi i soldi senza farsi problemi, il problema sorge quando un artista che ha raggiunto un certo “successo” si sente obbligato a dare al pubblico ciò che esso si aspetta da lui, questa è la morte dell’arte come creatività ed è una cosa che succede su tutti i livelli dal mainstream all’underground.
In un brano come questo una chiave di lettura è quella dell’arte senza mezze misure, ci sono quindi compromessi in cui non bisogna cadere per mantenere tale la propria arte?
Blo/b: Il compromesso peggiore per me è perdere personalità e originalità per “funzionare” e catturare un pubblico più ampio possibile. Anche nella vita odio chi cerca di piacere a tutti.
“Firmo muri, gli do un valore dopo che morirò, faccio baffi in faccia col bitume a ’ste Gioconde snob”
Il secondo brano è Marcel Duchamp, l’artista che per primo ha creato l’idea che il processo creativo e mentale di un’opera siano addirittura più importanti del prodotto artistico finale. D’altronde in ciò si legge la vera personalità dell’artista e del suo lavoro. Traslato nella musica, questo concetto è un’importante chiave stilistica del disco e del modus di Blo/b in generale. Si crea una contrapposizione molto interessante tra l’arte studiata e l’arte che fuoriesce in un impeto, entrambi approcci che reputo validissimi, benché portino a tipi di prodotto ben differenti. Nella track compare anche il contributo di Jack the Smoker.
Qual è allora il percorso mentale di Blo/b nel produrre un pezzo?
Blo/b: So che è strano da dire per un Mc ma per me il suono fa l’80% di un disco. Il miglior rapper della terra che dice le cose più fighe del mondo, se sotto ha una produzione che non mi piace, lo skippo. Problema mio, lo so, ma non ce la faccio. Quindi per me parte TUTTO dal beat, il mood in cui mi mette e il mondo che mi fa vedere. Da lì parto e scrivo.
E’ lo stream of consciousness, il flusso di coscienza di Joyce, è sempre bello vedere come le arti si intersechino tra loro. Nel pezzo si chiede la “pena capitale al rap game”, quali sono i suoi crimini? Si è macchiato la fedina della credibilità ultimamente o è sempre stato solo un gioco?
Blo/b: Il suo crimine più grande è stato non avermi permesso di diventare ricco facendo la musica che faccio. Se comandassi il mondo ucciderei tutti i rapper italiani e avrei il monopolio. Quella barra significa questo. Scherzi a parte forse l’errore più grande è la rincorsa al fenomeno del mese che si spegne in altrettanto tempo. Una mezza intuizione e zero talento. Un vero “Game” in Italia c’è adesso, prima c’erano dentro 2-3 nomi che andavano in televisione e tutti gli altri tentavano solo di rientrarci.
Seguono i pezzi dedicati a Jackson Pollock e Damien Hirst, altre due bombe che ascolterete domani, ma per descrivere il disco andiamo al successivo: quello in nome di Alberto Burri.
Burri ebbe l’intuizione di fare arte usando materiali e abbandonando i soggetti e i modelli umani. Che li reputasse più interessanti o più simili alla società, o che volesse descrivere un mondo in cui non c’è più fiducia nell’umanesimo puro, perché l’uomo distrugge più bellezza di quanta ne crei e i modelli sono una facciata, resta il fatto che avviene uno strappo. Questo disco ricorda la plastica bruciata di Burri, oscura e spontanea, della stessa stoffa di ciò che vedi nel mondo reale. C’è poi anche e sopratutto un attacco al modo di proporre i contenuti di un’opera, alla tendenza di farlo sempre tramite gli stessi canoni e simboli, da cui nasce il bisogno di creare diversi orizzonti espressivi.
“Le tentazioni hanno gambe lunghe, calze parigine. Sulla circonvalla fumo nero, le facce maghrebine. Stagnole dietro la stazione, gambe e braccia magroline, hanno mogli da mantenere con dentro demoni da partorire”.
Nel brano si dice “Non voglio dire un cazzo, lo voglio dire da dio”. E’ una domanda che faccio solo ad artisti che penso possano dare una risposta interessante, altrimenti sarebbe roba da catechismo. E’ la questione dei contenuti, questi hanno/hanno ancora una loro importanza nella musica? Che rapporto c’è tra contenuti e attitudine?
Blo/b: Il problema è “culturale” in Italia. Veniamo dalle scuole dei cantautori che, per quanto intoccabili mostri sacri, ti raccontavano una storia, facevano il pezzo triste, il pezzo d’amore, il pezzo autobiografico ecc… Secondo questo schema avrebbe contenuti solo quello che per dire che soffre scrive “sto soffrendo”. Incasellabile, leggibile e rassicurante. A me piace il Rap. Io non so scrivere canzoni. So rappare e voglio fare quello con lo stile più potente possibile perché mi esalta fare quello. Ma se fai un cazzo di sforzo nelle mie parole e nei suoni che uso trovi ciò che penso politicamente e non, trovi come sto e come vedo il mondo, trovi quello che vivo e dove vivo. Trasudo me stesso in ogni sillaba ma se cerchi l’asciugata e lo spiegone non ascoltare me. “Il messaggio è lo stile”. Tutto torna a “Taki 183”.
Gioielli: A mio parere, in Italia il discorso contenuti è stato totalmente frainteso, probabilmente chi ne parla ha come esempio mentale quelli della musica italiana, le “storielle” dei cantautori italiani, e vede i contenuti nel rap solo sotto forma di “pezzo a tema”. Io che ho una cultura musicale italiana pari a zero ed ho sempre ascoltato quasi solo esclusivamente black music intendo i contenuti come una cosa molto più liquida. I pezzi rap, che a volte sembra non stiano dicendo nulla, in realtà dicono moltissime cose, sono pieni di frasi che unite danno un quadro generale di una faccenda piuttosto che di uno stato d’animo… il fatto è che l’ascoltatore italiano che cerca i contenuti spesso vuole una natura morta o un quadri fotografico in stile Rinascimento, mentre forse l’artista sta disegnando Guernica o creando un’opera di Burri… che magari la guardi e dici “Beh… è solo plastica bruciata”, ma in realtà quella plastica è stata bruciata alla perfezione, curandone ogni possibile dettaglio affinchè il risultato finale fosse proprio quello. Perchè è quel risultato a trasmettere il messaggio ricercato dall’autore.
Seguono i brani dedicati ad Andy Warhol & the Factory (feat Dddictator Silla, Jangy Leeon e Lanz Khan),Jeff Koons e René Magritte ( in cui abbiamo l’unica strofa di Gioielli, che definire irriverente è poco) e la visita al MoMA si chiude con Giorgio de Chirico.
Questo disco può essere descritto come un “Tramonto degli idoli”, citando Nietzsche. In Giorgio de Chirico c’è la più tagliente disillusione verso il circostante. Si elencano come in una visione i migliori modelli di Mc, si porta l’ascoltatore in un dipinto in cui i rapper sono genuini, tipo per tipo. “Ho visto un rapper che spaccava per davvero”, “Ho visto un rapper che ha le collane vere, che dice che ha fatto i soldi e ne dà un poco al suo quartiere”, “Uno criminale che scherza sulle galere”,“Uno militante che lavora in un cantiere”. Il quadro, però, era un de Chirico e non ce ne eravamo accorti. Qui i soggetti sono manichini inquietanti come le loro Muse, le ombre più lunghe di quelle del mondo che dovrebbe essere reale (ma qui diventa utopia), i modelli invertiti. Il sogno si rivela per la sua natura, ma “Sembrava vero” e in ciò sta tutta la disperazione di chi ha occhi puri, resi ormai color della pece.
Con la figura di Burri non ci si riconosce più nei soggetti umani ma nei materiali come la plastica (bruciata) e in de Chirico emergono le contraddizioni delle varie figure tipiche di mc. Vorrei un commento su questo e anche chiedere se c’è una tavola dei valori, se questo nichilismo che viene espresso è inseguito o è un oscuro dato di fatto?
Blo/b: Ho 36 anni, sono vecchio per questo genere (in Italia). Già questo basta. In più, sono della generazione “di mezzo”: schiacciata tra i Padri di ‘sta cosa che non ci hanno quasi mai considerati loro degni successori (a prescindere) e i nuovi che ci considerano “Old School” o “Purista”. Un termine che se me lo dici in faccia ti azzanno alla giugulare. Identica cosa a livello di pubblico. Quindi sì, sono serenamente disilluso. Ho un grande rispetto di chi mi ha aperto gli occhi sul Rap ma sono in completo disaccordo con quella chiusura e gelosia del proprio giochino che “Non te lo do se no me lo rompi”. Quindi ho uno sguardo distaccato e ironico su tutti i fronti. Non ho grandi tavole di valori, se non che devi essere più che capace di fare le cose e devi avere la faccia e la vita per parlare di certi argomenti senza che mi scappi una risata di tenerezza.
Mi permetto di aggiungere una domanda leggera (forse). Bacchetta magica in mano, potete togliere qualcuno o qualcosa (un periodo, un’attitudine, un disco) dal museo del rap italiano e sostituirlo con qualcos’altro (un artista, un pensiero, un appendiabiti, una sedia, qualsiasi cosa).
Blo/b: Terrei tutto com’è: i social, Youtube, le piattaforme streaming, cazzi e mazzi ma farei scomparire i like, le views, gli streaming. I numeri in sostanza. Perché, su mezzi potentissimi che mettono praticamente tutti sullo stesso piano, i numeri sono diventati il metro di bravura, successo e intelligenza a prescindere. Ed è l’errore più mastodontico, che ci sta facendo ammalare tutti e che sta formando il metro di giudizio sulle cose di chi è nato e cresciuto in questo periodo storico. Forse esagero, ma siamo a rischio di morte del pensiero autonomo.
Infine questo disco prende varie cose dalla cultura di oltreoceano, oltre al concept, anche le sonorità. Ci sono ispirazioni da qualcuno in particolare? Io ci ho sentito echi di Griselda Records, ad esempio.
Blo/b: In principio era RZA e il WU: se ascolti “36 Chambers” ti accorgi di quanto tutto sia meravigliosamente sbagliato in quel disco. Tutto storto, sporco, stonato, scuro e “intubato”. Cosa che farebbe rabbrividire un classico musicista o un tecnico del suono. Questa è invece la forza devastante di quel lavoro cioè essere fuori schema, strano, astratto, malato. Essere un vaffanculo scritto gigante in faccia alla musica fatta “a modino”. Roc Marciano e Ka diciamo che sono i padri di questa nuova intuizione portata al massimo livello da Griselda, fatta di beat minimali e flussi di coscienza bastardi al mic. Ma basta dire che anche “Daytona” di Pusha & Ye, disco dell’anno per Complex, è un ritorno al primitivo per ‘sta musica. Chiaro, Gioielli prima di me e poi noi due abbiamo lavorato ai nostri dischi esaltati come cani da questo nuovo stimolo e st’ondata di dischi potentissimi con quell’atmosfera che ti ricorda il perché ti sei innamorato del Rap. Ma mi permetto di dire senza mezzo dubbio che il nostro bagaglio ENORME di Rap sulle spalle ci ha permesso di essere ispirati da questa cosa senza risultare una copia. Abbiamo preso ‘sta cosa e l’abbiamo fatta nostra. Punto. Molto più che egregiamente e con una credibilità indiscutibile.
Gioielli: L’ispirazione ai prodotti Griselda (ma più in generale a tutta la nuova wave che segue quel filone) è evidente e dichiarata. D’altronde, come sappiamo, in Italia, dal punto di vista del rap nessuno ha mai inventato nulla: nei novanta si cercava di fare le cose stile Premiere, Pete Rock o Tribe Called Quest, poi l’ispirazione è venuta da una parte da Dre e Storch e dall’altra magari dalle cose più Dilla, poi c’è stato il periodo Dipset o il primo Dirty South… Ora va di moda quella che viene chiamata trap, ma alla fine si tratta sempre di prendere qualcosa di americano e di rapportarlo all’Italia, chiaramente l’esperienza, il buongusto e le intuizioni dell’artista sono l’ago della bilancia che differenzia una brutta copia da un’ispirazione. Io e Blo eravamo entrambi arrivati nell’ultimo periodo a pensare di abbandonare il rap, la scena italiana è spaccata tra chi cerca il successo con la hit autotunnata ed una scena underground purtroppo stantia negli stessi suoni, le stesse attitudini e le stesse formule… E in america non è che la situazione fosse molto migliore fino a qualche anno fa. Poi abbiamo scoperto questa nuova wave che mira a riproporre le atmosfere del rap che ci ha fatto appassionare negli anni 90 ma senza la ricerca della pulizia e della definizione del suono che ne hanno appiattito la creatività negli ultimi 15 anni, riportare quindi in auge un suono Grimy e Low-fi. Io li chiamo i figli di Marciano (Roc Marciano) visto che lui è stato forse il primo ad intuire questa soluzione (seguito poi in maniera diversa da gente come Action Bronson, Curren$y), da lì sono venuti fuori Westside Gunn, Conway, Benny e ora un’altra marea di artisti che ne seguono le orme. Visto che questo è il genere di rap che ci piace ascoltare e che nessuno in Italia stava proponendo abbiamo provato a dare una nostra versione della cosa, prendendo gli stessi spunti ed elaborandoli secondo il nostro gusto ed il nostro stile.
Beh penso che si sia detto abbastanza, il disco esce domani, qui dentro la sua mappa anatomica.
A voi il resto
Foto credit: Fabio Zito