La forza dell’ Hip Hop sulla Striscia di Gaza
Ultimamente vengono definiti “rapper” artisti discutibili, che sembrano più interessati ad essere pettinati e vestiti alla moda, piuttosto che provare a diffondere i valori della cultura Hip Hop e, ancora meno, tramite questi aiutare il prossimo. Inoltre, purtroppo, le poche volte che qualcuno fa qualcosa di umanamente unico e significativo, non ne viene parlato molto. Recentemente l’associazione Gaza Is Alive ha messo assieme un gruppo di persone, composto da artisti, dottori e psicologi per portare reale supporto sulla Striscia. Gaza Is Alive 2019 è stata una vera e propria carovana di persone resa possibile grazie alla collaborazione di diverse realtà. Le associazioni Ya Basta! Edi Bese!, Musicon e V., Graphite HB e Another Scratch In The Wall con il sostegno di PCRF-Palestine Children’s Relief Fund.
La Striscia di Gaza, parte della Palestina, vive in un continuo stato di assedio, l’intera area è circondata da un muro controllato militarmente, non permettendo a nessuno di uscirne. Ad aggravare la situazione ci sono continui bombardamenti, che consentono di usufruire della corrente elettrica solo poche ore al giorno, acqua non potabile e un sistema fognario precario. In una situazione del genere è evidente che le condizioni psicologiche degli abitanti siano critiche, in particolar modo quelle dei bambini. La carovana, nei 15 giorni sulla striscia, ha convissuto con queste condizioni precarie, oltre che assistere a 3 bombardamenti effettuati dall’aviazione israeliana.
Gaza Is Alive 2019 è un progetto che concretamente per due settimane ha operato a Gaza, applicando il metodo della musicoterapia, utilizzando le varie discipline dell’Hip Hop. Dimostrando che non si tratta di una cultura preconfezionata. Il loro non voleva essere un imporsi ai gazawi, anzi, gli hanno fornito un’arma che conoscevano poco. La libertà di parola e di espressione con l’utilizzo dell’Hip Hop, per dare sfogo a una vita troppo rigida, nella quale non vi sono tanti altri spiragli di svago.
Il progetto è stato finanziato grazie a numerose iniziative di raccolte fondi e solidarietà. La carovana è tornata al proprio paese, ma il sostegno non finisce qui. La collaborazione di artisti locali è stata fondamentale per poter proseguire il progetto. Iniziando un percorso con il rapper Ayman aka Abu Joury e la Camp Breakerz Crew. Ayman, avvicinatosi all’Hip Hop nei primi anni del 2000, è un componente dei PR (Palestinian Rapperz), primo gruppo rap presente sulla Striscia, rappresentano le loro origini in diversi festival internazionali. I Camp Breakerz sono una crew di breaker palestinesi, provenienti dal campo profughi di Nuseirat. Attualmente è l’unica crew presente a Gaza. I Camp Breakerz, dai primi anni 2000, organizzano eventi di aggregazione per i ragazzi gazawi, cercando di trasmettergli un po’ di libertà tramite l’Hip Hop. Le persone locali che proseguiranno i workshop avranno una dignitosa retribuzione, consentendo così di continuare il lavoro iniziato e tenendo aperti quei luoghi di aggregazione alternativi, dove ogni altro modello aggregativo è sotto controllo religioso.
Il team di “Gaza Is Alive 2019” era composto da Dario Fichera, coordinatore del progetto, dal rapper & producer napoletano Vincenzo “Oyoshe” Musto, dal graffiti writer Davide “Smake” Nuzzi, dal ballerino franco-algerino Thomas Khalifa e da Alberto “Alby” Scabbia, presente da svariati anni sulla scena, attivo come produttore e ideatore del Wag Lab di Milano. Gli insegnanti sono stati coadiuvati dalla psicologa Valentina Nessenzia e Alberto Mascena, dal videomaker Fabio Saitto e dal fotografo e social media manager Fabio D’Alessandro. Il team ha svolto veri e propri laboratori.
Il workshop sul Writing a cura di Alby è iniziato dalle cose basilari, visto che per i ragazzi era la loro prima espressione creativa. Inizialmente scrivendo il loro nome in corsivo al centro del foglio, facendogli fare un percorso dell’evoluzione della lettera. Svolgendo un’attività ricreativa mai svolta dai ragazzi, gli si è dato modo di scegliere fra diverse opzioni di stili e colori. Da questa possibilità di scelta scaturisce il senso di libertà. Arrivando sino a fornirli di bombolette spray per poter fare le loro prime tag sul muro.
La Break Dance è stata curata dall’algerino Thomas Khalifa. Incentrando la base del suo workshop sul beneficio reso dai progressi fatti applicandosi e migliorando fisico e mente. Grazie alla Cb School alcuni ragazzi conoscevano già questa disciplina che gli permette un confronto senza scontro.
Fondamentale il racconto dei docenti sul flow e sull’attitudine. Il workshop sul Rap è stato seguito da Oyoshe ed il team di dottori che hanno attuato un metodo idoneo per riuscire ad entrare in sintonia con il popolo gazawo. In principio semplici esercizi di completamento di frasi iniziate da lui, fino ad arrivare alla scrittura di interi brani e alla loro incisione.
Vincenzo è stato colui che ho contattato per l’intervista che troverete dopo il video. Quest’ultimo è disponibile da qualche giorno su Youtube sul canale di Oyoshe, e racconta l’esperienza vista dai suoi occhi.
Dai bambini eravate visti bene ma dagli adulti? Rispetto anche al fatto che partecipassero donne.
Dario Fichera – Coordinatore: “L’impressione che abbiamo avuto è stata non solo quella di essere ben visti da tutta la comunità locale, ma anche fortemente supportati in quello che stavamo facendo, come se davvero stessimo in qualche modo rompendo il blocco di Gaza. Per lo meno uno dei blocchi sociali e psicologici legati all’isolamento, al controllo ed alla limitazione delle libertà individuali. Anche dagli adulti, quindi, venivamo guardati con curiosità. L’essenza dell’Hip Hop, è risaputo, viene compresa e diventa coinvolgente solo attraverso l’approccio diretto ed esperienziale. Insomma, quando raccontavamo agli “addetti ai lavori” come volevamo utilizzare l’Hip Hop, ossia come uno strumento di intervento psico-sociale, notavamo sempre un po’ di diffidenza, che però si dissolveva in fretta non appena vedevano i ragazzi in azione: che fossero intenti a scrivere rime, comporre una base, ballare o disegnare lettere su un foglio quello che tutti notavano immediatamente era come questi ragazzi si sentissero finalmente liberi! La paura più grande di alcuni era che fossimo lì per contaminare la cultura locale imponendo un modello occidentale. Mi sento di poter affermare che siamo riusciti, invece, a dimostrare che l’Hip Hop è soprattutto un linguaggio per esprimere i sentimenti della società che lo adotta. Siamo riusciti anche a far sentire i ragazzi parte di una collettività globale, più ampia, e composta da persone molto differenti tra loro. Abbiamo dimostrato che sono proprio queste differenze ad arricchire la comunità Hip Hop. In occasione della jam finale, alla quale hanno partecipato anche le famiglie, abbiamo visto persino alcuni degli adulti più conservatori battere le mani a tempo. Forse anche quegli adulti erano inconsapevolmente sulla strada giusta per superare alcune barriere che si impongono da soli. Riguardo alla partecipazione di donne al progetto, non c’è stato alcun tipo di problema.”
Rispetto a quando siete arrivati che cambiamento avete notato nei bambini?
Valentina Nessenzia – Psicologa: “Il cambiamento più grande notato nei bambini è stato un forte senso di apertura nei confronti sia dei coetanei, molti dei quali non avevano alcun tipo di legame prima dell’inizio dei laboratori, sia verso le figure adulte. L’instaurarsi di una grande complicità, ha permesso di lavorare con tutto lo spettro emotivo ed affrontare quindi ansie, paure e preoccupazioni che spesso trovano terreno fertile in ambienti in cui sono presenti situazioni di guerra. La forza del progetto è stata confermata anche e soprattutto dalla presenza delle famiglie, che una volta che i workshop hanno preso avvio, hanno partecipato attivamente fornendoci un feedback diretto sugli effetti positivi riscontrati nei figli dopo l’inizio delle lezioni.”
Oyoshe – Rapper: “Dopo i primi due giorni, passati a sistemare i luoghi dove tenere i nostri workshop, finalmente ci siamo incontrati con i nostri ragazzi (età tra i 4 e 19 anni). Le nostre giornate iniziavano e finivano tutte con un momento di confronto tra psicologi e bambini, per far sì che si potesse fare un briefing delle condizioni psicologiche dei ragazzi e di come vivessero i nostri workshop. Il primo giorno, ho notato le espressioni dei bambini; oltre la curiosità nei nostri confronti, erano evidenti i loro stati d’animo. Mi chiedevo come un bambino di quell’età, potesse avere un’espressione che comunicasse una sofferenza molto più grande e matura di lui. Ero sicuro che a quei bambini mancavano cose che andavano oltre i semplici giocattoli. Altri, forse più forti e capaci, si dimostravano spensierati e felici della nostra presenza. Le attività si sono rivelate molto utili per tenere i ragazzi lontani dai pensieri di ogni giorno, almeno per qualche ora. In certi momenti, i bambini si distanziavano dal resto del gruppo per prendersi un attimo di silenzio in un angolo, in cui si immergevano in chiari stati di ansia e angoscia. Mi è capitato di chiedere se fosse tutto apposto, ma arrivava spesso un convintissimo ‘’No’’ col quale poi ritornavano alle attività e altre volte anche un sorriso. L’ultimo giorno, abbiamo messo in pratica tutto quello che abbiamo svolto durante i workshop con una jam che ha messo in pratica tutte le discipline Hip Hop sviluppate. Un momento bellissimo è stato anche quello della Dabka (tipica danza rituale palestinese); un gioiosissimo scambio artistico e culturale. Un clima di gioia indimenticabile, che ha rotto quel sottile filo che teneva la mia sensibilità stabile, lasciandomi crollare in un pianto di sfogo e commozione che realizzava tutta la dura realtà che si abbatte ogni giorno su quei bambini.
Come hai conosciuto “Gaza Is Alive” e cosa ti ha spinto a partecipare al progetto?
Oyoshe – Rapper: “Ho avuta la fortuna di essere notato grazie alle attività sociali che svolgo sul territorio in Campania, dove mi occupo di laboratori Hip Hop-pedagogici. Nel corso delle mie esperienze ho tenuto laboratori ludico ricreativi per bambini provenienti da diversi contesti sociali e psicologici, tra cui quelli realmente difficili e problematici. Non lavoro solo con bambini e adolescenti, ma ho anche lavorato con immigrati di guerra nei centri di accoglienza, dove ho respirato le vibrazioni dell’Africa, ed ho messo in pratica il linguaggio della musica, che metteva insieme persone con linguaggi e ideologie differenti. Grazie al mio legame con Alberto Scabbia, ovvero il proprietario dell’Hip Hop Shop “Wag Lab Milano“, si è consolidata questa collaborazione tra me e il gruppo Gaza Is Alive.
Un ricordo, quello che ha rappresentato di più il tuo viaggio?
Dario Fichera – Coordinatore: “Da 5 anni a questa parte mi reco spesso nella Striscia di Gaza, ma questo viaggio è stato particolarmente ricco di emozioni. La cosa più bella è stato vedere finalmente concretizzarsi davanti ai nostri occhi quello che avevamo immaginato e progettato per anni! Tanti ricordi affiorano quotidianamente, ma uno di questi mi fa sempre ridere. Il primo giorno di laboratori, che abbiamo definito “Open Day”, è servito a mostrare quello che avremmo fatto e come lo avremmo fatto. C’erano delle donne, assistenti sociali e psicologhe, che giravano per le stanze ed osservavano. Erano tutte giovani, ad eccezione di una, che era invece parecchio anziana. Lei, tra l’altro, l’avevo già incontrata l’anno precedente in un centro di sostegno per le famiglie dei profughi. Mentre Oyoshe spiegava cosa fosse il “flow” nel Rap e come fosse nato l’Hip Hop nel Bronx, lei osservava in disparte e prendeva appunti sul suo taccuino, con l’espressione seria. Non so se qualcun altro se ne fosse accorto, ma io non avevo il coraggio di farlo notare agli altri, in quanto pensavo che i suoi appunti servissero a dimostrare che quello che stavamo facendo fosse “haram” (vietato dall’Islam). La scena si è protratta per quasi tutto il pomeriggio, con i bambini che improvvisavano rime e strofe. Verso la fine del laboratorio questa donna si è alzata in piedi, ha attraversato tutta la stanza con il suo taccuino in mano, guardando Oyoshe negli occhi. Io tremavo e cercavo di immaginare cosa potessimo aver fatto di “haram” e come eventualmente replicare in modo gentile. Giunta di fronte ad Oyoshe ha detto “Anch’io ho scritto delle rime in arabo. Ve le faccio sentire” e le ha immediatamente cantate, tra l’altro stando perfettamente a tempo! Erano versi che parlavano di sogni e di bambini. Ci siamo commossi ed esaltati tutti!”
Fabio D’Alessandro – Social Media Manager: “Il ricordo più bello è certamente quello dell’ultimo giorno, il pianto, il clima che c’era alla fine, la consapevolezza di aver fatto qualcosa comunque di grande.”
Alberto Mascena – Psicologo: “Un ricordo rappresentativo? Per me Gaza è un luogo dove la tragedia si mischia alla poesia, dove le persone possono banchettare durante un bombardamento, trovando naturale questo tipo di esistenza.”
Valentina Nessenzia – Psicologa: “La sensazione che più è rimasta impressa dell’esperienza vissuta a Gaza è il totale spaesamento nel trovarsi in un ambiente visto solo nei libri prima di quel momento, e allo stesso tempo trovarsi a parlare la stessa lingua con i ragazzi che ci vivono. Un po’ come nel film “Non ci resta che piangere”, si fa un tuffo nel passato (chiaramente non quello rinascimentale, ma del primo dopoguerra italiano) ma con la tecnologia, i sogni e le ambizioni attuali. Guardarsi attorno e sentirsi dentro a una macchina del tempo e contemporaneamente avere la sensazione di essere completamente “sul pezzo” chiacchierando con le persone con cui si è instaurato un rapporto talmente profondo che anche una volta finita l’esperienza in loco rimane vivo. La passione e il coraggio delle persone che vivono dentro la Striscia di Gaza, il trovare ogni giorno un motivo per lottare per la propria terra, la voglia di affermare che la Palestina è viva e rivendica le sue radici nonostante tutto, è la conferma che quella terra ha molto da insegnarci e la forza del nostro progetto sta anche nell’aver trovato persone accoglienti e felici di vivere questa avventura assieme a noi.”
Oyoshe – Rapper: “Sicuramente è stata un’esperienza che mi ha segnato dal primo momento in cui ho realizzato di dover intraprendere una cosa del genere. La cosa che più mi è rimasta impressa è la costante sensazione che ho provato dal momento in cui ho avuto accesso alla striscia di Gaza; una realtà totalmente diversa rispetto a quello che viviamo ogni giorno. Li ho capito di essere in un ‘’mondo’’ differente, dove andava messo in atto un’approccio meticoloso nei confronti del rispetto delle usanze e dei costumi. La pressione dell’occupazione militare suscitava la tensione di poter fare qualcosa di inappropriato e rischiare facilmente, ma fortunatamente da questo punto di vista è andato tutto bene. Abbiamo subito controlli molto spesso, addirittura da parte dei servizi segreti locali, che ci hanno dimostrato di avere già informazioni su di noi. I controlli all’ingresso sono stati blandi, rispetto a quelli dell’uscita che si sono dilungati fino dentro all’Aeroporto di Tel-A-Viv (Israele), dove abbiamo subito interrogatori sul perché della nostra presenza. Ero consapevole di essere in un clima di tensione. Ma nonostante ciò, mi ha colpito l’amorevolezza e la disponibilità del popolo Gazawo; Persone in costante preoccupazione per la nostra incolumità. Sguardi alla ricerca di speranza, di amicizia, di compagnia, di sicurezza. Indimenticabile la smisurata gioia nell’accoglierci nei piccoli ristoranti, dove si finiva in totale familiarità con lo staff, che si sedevano con noi chiedendoci chi fossimo e cosa facessimo li sfociando in lunghe chiacchiere e in un clima di festa.”
In conclusione cosa ci vuoi dire? Conoscevano già l’Hip Hop e come si sono approcciati alle varie discipline?
Oyoshe – Rapper: “In conclusione sono certo di poter dire che siamo fortunati, e che certe cose non si possono capire fin quando non le vivi o le vedi da vicino. Tutti possiamo nascere in condizioni di vita difficili, anche se nasci in un luogo ricco. Le problematiche, le difficoltà sono ovviamente anche individuali. Ma tornato da Gaza ho capito la differenza dimensionale che circonda l’esistenza in un luogo dove un determinato modo di vivere è imposto e non c’è alternativa. E come stare perennemente col respiro bloccato a metà, col fiato sospeso che non scende più di tanto, e che anche tu devi stare attento a non far scendere. Il militarismo imposto credo sia una cosa senza concezione di umanità, quindi la vedo come un invenzione, o meglio un infezione. Possiamo nascere poveri e provare a diventare ricchi, possiamo romperci le ossa e ricoverarci per guarire, ma tutto ciò invece l’ho vista come una malattia, in cui una possibile cura potrebbe anche esserci, ma per interesse più complessi non si mette in pratica, perché ci sono tante altre cose, come lo scenario di Gaza, che fino a poco fa, nemmeno potevo immaginare. Grazie ai Camp Breakerz, crew locale che abbiamo inserito nel nostro progetto e che abbiamo sostenuto, molti dei giovani Gazawi erano già dei futuri Bboys. I giovani ci hanno veramente scioccato con la loro passione per la break dance, mista ad un’attitudine proveniente dalla cultura di danza locale, sfoggiando uno stile personale, e scolpito dalla loro immersione fisica e mentale in una pratica carismatica come la break dance. Molti di loro non conoscevano oltre la break dance… Ancora non erano andati oltre. Altri conoscevano canzoni di rap locale, ma non avevano mai provato a scrivere testi. Altri invece, praticavano già l’arte della scrittura di poesie, come Sarah, che una volta scoperto il flow, ha dato libero sfogo al suo estro connettendo parole e musicalità. I workshop si sono svolti contemporaneamente in classi diverse tra rap, break dance e graffiti , e i gruppi si alternavano in modo tale da dare l’opportunità a tutti di conoscere e praticare le discipline dell’Hip Hop.”