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The Irish Man: Scorsese is back



The Irish Man è un film che, forse, non rivedrò mai più. Premetto: è un film bellissimo.

Come non potrebbe esserlo? Hai Ronaldo, Messi, Modric, e come “riserve” Suarez, Pjanic e tutta la Juve di Lippi. Hai una regia eccezionale; è oro ogni cosa che c’è in pre-e post produzione. Al catering ci sarà stato sicuro Antonino Cannavacciuolo. Non basta? Quando vedi Luca Argentero interpretare Leonardo Da Vinci, da allora, non esiste più il bello o il brutto. Ma solo il bello, perché l’orrore è stato raggiunto ai massimi livelli. Mi muovo in punta di piedi in questo mio sentire, perché Martin Scorsese è “M’illumino d’immenso“, di conseguenza e sbagliando, non mi va di farne una recensione, quel che mi preme, a caldo, è di esprimere quello che il film mi ha lasciato.

Mi ha lasciato un’interpretazione (piango) disarmante di Al Pacino. Una delle migliori della sua vita. È tornato dal teatro per far splendere il cinema. Mi ha lasciato un Joe Pesci da Oscar, e un Robert De Niro che non deve dimostrare nulla a nessuno già da vent’anni. Mi ha lasciato un Harvey Keitel che mi batte il cuore.

Ho visto un annetto fa un documentario su Jo Hoffa. E non avevo idea di cosa parlasse il film di Scorsese. Mi ero forzata per mesi, a non leggere nulla. Zero. Facendo slalom sulla bacheca di fb per evitare le matricole del Dams Cinema. Ma anche i laureati.

Ce l’ho fatta, perché sono arrivata al Cinema delle Quattro Fontane con addosso un big menu Mcchiken, ingurgitato, ancora non digerito, e nient’altro. Ero in prima fila, da fare invidia a tutta la Nouvelle Vague e a tutti i nani del mondo. Ma la sala era bella, e non sono uscita con otto cervicali infiammate e lombosciatalgia come al PalaBiennale, al Lido. Dicevo: “Ero pronta a incontrare De Niro face to face“.

Al Pacino (Jimmy Hoffa) e Robert De Niro (Frank “The Irish Man” Sheeran)

E così è stato: tre ore e mezza di fotografia spettacolare, di regia spettacolare, di recitazione spettacolare. Ma mai più. Mi sono ritrovata negli ultimi quaranta minuti, a dover sopportare gli ultimi quaranta minuti. Pensavo solo, a livello esistenziale: “Che bello fare la fine di Hoffa“. Che non è dovuto invecchiare in carcere con ictus, prostata o sedia a rotelle.

Perché non lo rivedrò, forse, mai più? Perché vedere De Niro giocare a bocce, mi ha ricordato che poco tempo fa lo vedevo scorrazzare su un taxi, ed io ero piccola e senza problemi di cervicale. Negli ultimi 40 minuti, non è diventato più il film di Scorsese, ma il film della mia vita. Della nostra. Di una senilità incombente e feroce, che ha toccato la mia persona e non il diegetico. Perché nel film non riuscivo a dare credibilità ad un riassunto di 40 minuti sulla fine di Tony Pro, Russell e la pseudo confessione di Frank. Mi dispiace, qualcosa in quei quaranta minuti, non va. Pensavo a me, e al fatto che non avrei visto più degli attori così grandi, accompagnarmi per la mia, di senilità.

Cosa mi rimane? Mi rimane su tutto la riunione tra Hoffa, Frank, ed il piccoletto. Che vedrò e rivedrò per sempre.

Martin Scorsese e Joe Pesci (Russell Bufalino)

Perché Scorsese, in questo suo ultimo film, non c’ha regalato un capolavoro, no. Ma tra le sequenze più belle della storia del cinema. E tra le sequenze più belle da vent’anni a questa parte della sua filmografia. Grazie per essere tornato.