Ogni volta che Dj Fede sforna un nuovo album ci troviamo davanti ad una enorme vetrina con l’eccellenza della scena Hip Hop italiana, ma questa volta col gusto del passato e più precisamente dei ’90, la Golden Age nostrana. Abbiamo colto l’occasione per fare quattro chiacchiere e per farci presentare direttamente da lui Product of the 90’s, questa sorta di macchina del tempo al contrario: non ci porta negli anni ’90, sono gli anni ’90 ad essere trasportati ai giorni nostri.
2019, quasi 2020, oggi viviamo il futuro ma teniamo lo sguardo fisso sul passato. Siamo nell’era in cui immaginavamo che le auto volassero e invece trova nuova vita il vinile. In questo contesto esce il tuo nuovo album, un chiaro omaggio agli anni 90 ed al suono dell’Hip Hop più classico. È una scelta dettata da una tua esigenza o è ciò di cui c’era bisogno?
Direi che è stata una mia esigenza ma, visto il riscontro, credo che, probabilmente, ci fosse bisogno di un disco come questo. Il mio suono è sempre stato “classico” e, nonostante abbia sempre cercato di coinvolgere nuove leve nei miei progetti, questa volta è stata durissima, quindi, dopo aver preso coscienza dell’enorme scollatura che c’era tra ciò che volevo fare e le ultimissime generazioni, ho deciso di andare sul sicuro e mi sono rivolto solo a chi ero certo che potesse interpretare in maniera aderente e completa i suoni di un disco ispirato alla Golden Age. Quando ho ascoltato il master del disco mi sono reso conto che tutto girava come doveva e questo è ciò che ha percepito anche chi lo ha ascoltato. Infatti il riscontro è stato molto positivo.
L’album si apre con una traccia che è già un classico: L’acciaio della gavetta con Dafa al mic e Dj Tsura sui piatti. Questo pezzo dà il giusto spazio ad uno degli MC più sottovalutati della Golden Age, forse all’epoca leggermente oscurato dall’altro Lyricalz. Come nasce questo pezzo?
Dafa è un liricista d’eccezione. Non a caso l’ho voluto nel disco e abbiamo confezionato il primo singolo. Con il suo strofone dimostra tutte le skills. Quando ho finito il beat, ho subito pensato che potesse essere adatto a lui, quando lo ha sentito gli è piaciuto e abbiamo registrato, poi è stata la volta degli scratch con le frasi scelte accuratamente da me e Dj Tsura, che ha costruito un super ritornello.
Il brano con Claver Gold mi porta dritto al 1998, quando sentii lo stesso sample nel brano The Plan dei Sunz Of Men e mi innamorai della voce di Ann Peebles, anche se per arrivare a lei ho dovuto aspettare l’aiuto del web, che allora non era così diffuso. Come hai scelto di usare questo sample?
Campiono praticamente solo dal soul e dal funk, ma tendenzialmente rimango su atmosfere soul. Si tratta di un sample che mi era sempre piaciuto e che non avevo ancora usato, questa è stata l’occasione buona. Ho molto materiale da parte che voglio trasformare in beat, a volte va tutto liscio e gira bene, a volte non suona come deve e non vede la luce.
In questo caso penso che il beat scorra particolarmente bene e Claver Gold, con la sua voce calda e le sue rime poetiche, era sicuramente l’MC giusto per cavalcarlo a dovere.
Il disco continua con l’alternarsi di nomi che nei 90 hanno fatto la storia ad altri che sono emersi negli anni successivi. Come hai scelto con chi collaborare? C’è stata qualche collaborazione che avresti voluto realizzare ma che non troviamo sull’album?
Diciamo che le collaborazioni si dividono in due categorie: le amicizie di vecchia data e la stima artistica (ovviamente una cosa non esclude l’altra). Tutti quelli che ho contattato sono presenti sul disco, quindi direi che ci sono tutti quelli che volevo. All’inizio volevo inserire più nomi giovani ma, quando mi sono reso conto che anche mettendoci del loro non erano in grado di rappare su certi beat – troppo abituati come sono a sonorità più moderne -, ho capito che disco avrei dovuto fare. Sicuramente ci sono dei rapper con cui vorrei collaborare e confrontarmi in futuro, ma questo disco va bene così com’è.
Torino la fa da padrona, tieni alta la bandiera di casa tua, un altro pezzo da 90, Maury B. Da quanto vi conoscete?
Credo da una ventina di anni. Io sono sempre stato molto nei club e lui più nelle sale concerti, ma la conoscenza è di lungo corso. Sapevo che la sua potenzialità era altissima e la mia convinzione non è stata disattesa.
Credo che il beat fosse adatto e che sia riuscito a fondersi perfettamente con le sue liriche. A volte i pianeti si incrociano al momento giusto e vengono fuori delle piccole perle, come questo brano!
C’è posto anche per Bologna, Roma e altre realtà, con artisti dallo stile più vario, connessioni evidentemente nate grazie alle tue esperienze lavorative che ti hanno portato a viaggiare in tutta Italia e non solo. Quella di lavorare solo con esponenti della scena nostrana è nata una scelta o è stato il naturale sviluppo del progetto?
In dodici album ho collaborato solo due volte con rapper stranieri, una è stato Big Noyd e l’altro Rival della CNN crew. Non credo molto in questo tipo di collaborazioni. Chiaramente per me sarebbe molto figo avere su un mio disco rapper come Evidence, Apollo Brown o qualcuno del giro Griselda, ma alla fine il pubblico italiano ama ascoltare il rap italiano e quando si può avere un Inoki, un Tormento o un Esa sul disco è sicuramente più efficace e la collaborazione rimane anche più genuina. Alla fine gli americani sono abbastanza mercenari, quindi preferisco lavorare con chi già mi conosce e ha veramente piacere di partecipare al mio progetto.
Il disco si chiude con due bonus track: nella prima sei riuscito a riunire buona parte dell’Area Cronica, che è stata uno dei capisaldi della scena all’epoca. Oggi secondo te c’è una realtà paragonabile all’AC?
Non saprei, le cose sono cambiate talmente tanto che fare paragoni diventa abbastanza difficile. Sicuramente Tormento e Fish, con quel progetto, hanno dimostrato di crederci molto e di reinvestire ciò che guadagnavano attraverso i Sottotono in un’etichetta indipendente, che è sempre una grande sfida. Questo lo posso affermare personalmente grazie all’avventura de La Suite Records che ho portato avanti per parecchi anni con Rula degli ATPC. Forse Machete potrebbe essere un paragone, ma il mercato oggi è talmente cambiato, sopratutto nei confronti di questa musica, che si tratta due ere troppo distanti l’una dall’altra. Una volta ci si batteva per far conoscere il genere, oggi il rap vende 10 volte più del pop.
Nella seconda, invece, troviamo Primo nella versione acustica di un brano già incluso nel disco Tutti dentro… di nuovo. È palese l’affiatamento che c’era fra di voi anche ascoltando i vostri lavori precedenti, com’era lavorare con lui?
Mi ricordo bene il giorno in cui abbiamo registrato questo brano, era un sabato pomeriggio e la sera avevamo un live a Milano. Il beat lo scelse qualche settimana prima tra 4 o 5 diversi. Quando arrivò in studio registrammo e il pezzo lo sapeva già a memoria, cosa non scontata. Ma l’aspetto che mi colpì di più fu il lavoro che fece sul ritornello e le seconde voci. David non ha mai smesso di studiare per migliorare il suo modo di rappare, di scrivere e di cantare; questo fa una differenza enorme. Comunque già ascoltando in macchina il pre-mix, dopo averlo registrato, ci siamo resi conto che il pezzo era una bomba. Credo che una versione acustica sia stata la scelta più giusta per dare ancora più spazio alla sua voce e alle sue liriche.
Sei conosciuto come un grande collezionista di dischi. Mi sono sempre chiesto: come fai a scegliere un sample in una grande collezione? Nel senso, la ricerca comincia sapendo già cosa cercare o scavi fino a quando non trovi il disco giusto?
Sono arrivato ad avere circa 25.000 vinili. Poi ho iniziato anche a venderne un po’: si fanno una marea di acquisti sbagliati, oppure si prendono dischi che possono piacere sul momento ma, a distanza di tempo, non dicono più nulla. Il segreto, per quanto mi riguarda, è ascoltare musica di continuo: a forza di ascoltare, a un certo punto cogli quel momento perfetto per essere tagliuzzato e ricostruito. Alla fine, il modo di produrre non è altro che un tributo al disco che ho appena campionato. Non so mai cosa posso trovare, anche se ormai mi conosco bene e so quali sono le atmosfere che mi colpiscono e che possono essere adatte per fare un beat firmato Original Flavour.
Per concludere: gli anni 90 hanno segnato in maniera indelebile l’Hip Hop, particolarmente quello italiano. Pensi che la scena attuale sarà celebrata allo stesso modo fra 20 anni?
Ritengo di essere stato molto fortunato a crescere e avere l’età giusta in quegli anni, il periodo in cui sei una spugna e assorbi tutto. Fortunatamente nei 90 sono usciti dei gran dischi in Italia e in America. Credo che certi album italiani siano rimasti e se ne parli ancora oggi perché erano densi di contenuti e sono stati capaci di fotografare un momento storico, sociale e anche politico, cosa che manca quasi completamente nei dischi di oggi. Proprio per questo motivo, credo che di molti dei progetti che oggi sono all’apice rimarrà solo il ricordo di quanti dischi d’oro hanno fatto piuttosto che dei labilissimi concetti che hanno espresso.