Scompare prematuramente uno dei musicisti più influenti degli ultimi decenni, un artista che ha contaminato il jazz con i suoni di ogni angolo della Terra.
I dischi si succedono nello stereo, i ricordi dei tanti concerti visti ritornano, i sentimenti si accavallano. Difficile spiegare cosa una perdita come questa possa significare per chi come me è cresciuto con la musica di Pat Metheny e Lyle Mays.
I due musicisti, nella loro unione nel Pat Metheny Group, hanno avuto quel tipo di ‘chimica’ che nella storia della musica ha dato spesso i più alti risultati. Due grandi artisti che durante la loro pluriennale collaborazione hanno raggiunto vette di creatività altissime. Quando questo genere di simbiosi si interrompe e ciascun artista intraprende una propria strada, quella magia svanisce. Ognuno sviluppa un proprio discorso, magari con ottimi risultati, ma niente potrà sostituire la scintilla che solo dall’incontro di due genialità poteva scoccare. Negli ultimi anni, Metheny non sempre è stato ‘on focus‘ e Mays si è un po’ defilato. Ciò naturalmente non toglie che i due, anche in proprio, abbiano fatto molte cose per l’appunto ottime.
In particolare, la discografia solista di Lyle Mays si limita a quattro eccellenti album incisi tra il 1986 e il 2000. I primi due, ‘Lyle Mays‘ del 1986 e ‘Street Dreams‘ del 1988, esplorano le istanze della musica jazz-fusion. Nell’album di debutto le composizioni di Mays sono eseguite in sestetto. In quello del ‘88 invece la formazione è flessibile, diversa da brano a brano, con l’inserimento di una sezione fiati e un’orchestra d’archi.
Segue ‘Fictionary‘ del 1993 in cui la musica di Mays si sposta sul versante acustico. I brani sono eseguiti dal classico trio pianoforte (Mays), contrabbasso (Marc Johnson) e batteria (Jack DeJohnette). La fonte d’ispirazione (o almeno, una delle fonti) è dichiarata: il disco si apre con la composizione intitolata ‘Bill Evans‘.
Chiude la discografia ‘Solo (Improvisations for Expanded Piano)‘ del 2000 in cui il piano è l’unico interprete della musica. Quasi tutti i brani registrati sono completamente improvvisati e il suono del pianoforte è processato attraverso la tecnologia digitale tramite apparati MIDI.
Se vi piacciono le etichette, ognuno di questi dischi puo’ essere inserito all’interno di un genere: jazz-fusion, piano trio, ambient/elettronica. Ma sarebbe un esercizio sterile: ad un attento ascolto, ogni opera contiene anche i semi delle altre, in un unico continuum.
E’ l’approccio alla materia ad essere unico e a portare dentro la musica dell’autore un’infinità di influenze diverse. Sono convinto che sia questo il marchio di fabbrica dell’artista del Wisconsin: l’erudizione, l’enorme cultura musicale che facevano diventare le sue composizioni e i suoi arrangiamenti una forma di espressione globale, ecumenica.
Ancor più che nella propria opera, questo è riscontrabile nel grande corpus di composizioni e arrangiamenti firmati insieme a Pat Metheny. Ed è stato il Pat Metheny Group il laboratorio in cui questa vasta commistione di generi ha trovato la massima espressione.
Dischi come ‘First Circle‘, ‘Still Life (Talking)‘, ‘Letter from Home‘, ‘Imaginary Day‘ e altri, sono letteralmente viaggi intorno al mondo. Opere in cui, sulla base del canovaccio jazzistico sempre presente, si innestano le influenze più disparate.
Per capire meglio però quale sia stata l’enorme influenza che Mays ha esercitato sulla musica di Metheny, vi invito a recuperare il secondo album solista del chitarrista: ‘Watercolors‘ del 1977.
Fu il primo disco a sancire l’incontro tra i due giovani musicisti (Pat 23 e Lyle 24 anni) che già provenivano da esperienze in campo jazzistico. Metheny aveva fatto parte del gruppo del vibrafonista Gary Burton, Mays della big band di Woody Herman.
Watercolors è chiaramente un album di transizione. Alcuni brani sono eseguiti con una strumentazione scarna, principalmente da Metheny alla sola chitarra, e risentono sia delle influenze jazzistiche che di quelle del folklore nord americano. Le altre composizioni sono suonate dall’intera band e rivelano già quell’anima aperta a molteplici influenze che diventerà la cifra stilistica del PMG.
Gli 8 pezzi che compongono l’album sono ancora tutti a firma di Metheny, ma è evidente il contributo di Mays agli arrangiamenti.
Brani come ‘Watercolors‘, ‘Lakes‘ e ‘River Quay‘ svelano già in modo netto quello che diventerà il carattere della band a venire.
Basterà operare un cambio di bassista – Mark Egan al posto di Eberhard Weber – e la prima formazione del Pat Metheny Group sarà pronta a spiccare il volo. Metheny alle chitarre, Mays al piano e tastiere, Egan al basso e Danny Gottlieb alla batteria, nel 1978 daranno alle stampe l’album di debutto della formazione.
L’eredità che questo grande pianista, tastierista, compositore, arrangiatore, genio dell’elettronica ci ha lasciato è enorme e sarà da scoprire e riscoprire negli anni a venire.
Ma a tutto questo, per chi come me è cresciuto con i suoi dischi e con quelli del Pat Metheny Group, si sovrappone la saudade del ricordo, le piccole grandi cose che ritornano alla mente ascoltando la sua musica.
Non tutti potranno percepire in questo modo la perdita di Lyle Mays.
Ma il cuore di quelli della mia generazione, lo stesso che ha battuto forte per i suoi capolavori, in questi giorni è pesante.
Lyle ha lasciato un posto vuoto in cui nessuno potrà mai più sedere.