Quando scendi dal taxi, e ti ritrovi nel piazzale dell’aeroporto di Sana, ti rendi conto che non vorresti piu’ partire. Questa citta’, che le mappe della geopolitica marcano come la capitale dello Yemen, ti e’ rimasta proprio nel cuore, come il profumo di una donna che incontri in circostanze imprevedibili, e dopo esserti perso nella profondita’ dei suoi occhi, ed aver continuato per la tua strada, ti costringe a ruminare sulle ingiustizie del destino, e sulla sua abilita’ di farti incontrare le persone piu’ giuste nei momenti piu’ sbagliati.
Attraversi un aeroporto modesto, molto simile a un terminale dei bus, e noti con piacere la mancanza di tutte quelle persone che si comportano come stelle del cinema solo perche’ stanno per accingersi a salire su un aereo. Con pesantezza inconsueta ti avvii verso il check in. E dopo aver svolto con riluttanza le consuete pratiche – pratiche che ti ricordano le regole di un mondo che dovrebbe essere di tutti, o di nessuno, ma che invece e’ di chi se lo e’ preso – rimani leggermente interdetto, perche’ sul rettangolo di carta che stringi tra le dita noti che manca il numero del gate.
“Mfatla Yassadik, ma da quale cancello mi devo imbarcare?” Un sorriso, stampato su una faccia gentile, decorata da due occhi nerissimi e due baffoni a manubrio, ti risponde: “Da quella porta la’ in fondo, Sahib… L’unica che c’e’…”
Sorridendo attraversi l’aeroporto, lasci a sinistra la sala d’attesa, con tante donne velate, sedute sotto il grosso cartellone della pubblicita’ della CocaCola, il simbolo di una realta’ da cui credevi di esserti allontanato, dopo aver attraversato un oceano e due mari per arrivare fino a qua.
Sull’aereo, solo dopo esserti seduto ed aver allacciato la cintura, realizzi cosa sembra fuori posto. E’ un mese che non vedi il viso di una donna, che sei costretto a fantasticare solo con il mistero di due occhi incorniciati dal chador. Qui, invece, sulla Yemenia Airline, il mistero e’ finalmente svelato: tutte le hostess sono a viso scoperto. Ma poi noti anche che sono molto diverse dalle donne di Sana, e cominci a pensare che non puo’ essere solo l’appartenenza a ceppi tribali differenti. E allora, con il pretesto di ordinare da bere, ci parli, e scopri che vengono da Dubai, Damasco, Barhein, e immagini che sulle linee aeree dell’Arabia Saudita probabilmente e’ lo stesso, e il mistero si infittisce di nuovo, mentre voli sul mar Rosso, per cambiare continente in meno di due ore.
Asmara, Eritrea: l’aereo si ferma in un piazzale, poco piu’ grande di quattro campi di calcio, illuminato dalla luna piena. Scendi e ti avvii a piedi verso un aereoporto di stile sovietico, che potrebbre essere un supermercato con relativo parcheggio. Un’aria fredda e pungente ti entra nei polmoni, e subito ti rendi conto di essere in quota, sopra i duemila.
Il tassista ti chiede: “Where do you want to go?”
“Africa Pension, please.”
“No problem.” Ed e’ un nuovo mondo, con un altro alfabeto, altri soldi, altri suoni.
Attraversi un giardino ben curato, con piante mai viste prima e una statua di bronzo di Costantino, e poi entri in una grande anticamera, con soffitti altissimi, e un signore dietro un bancone di legno che ti dice: “Abbiamo due stanze, una al pian terreno e una al primo piano. Le consiglio quella al piano superiore, è più tranquilla.”
Tranquilla? Mah… Se qui non ci sono automobili, ne’ cani arrabbiati, ne’ iman che chiamano la preghiera alle cinque del mattino, o negri con grosse radio che suonano salsa o hip hop a tutto volume, o donne dalla reputazione ambigua che vogliono convincerti ad assaporare le loro grazie a prezzi inflazionati, che cosa vorrà dire più tranquilla? Le strade sono deserte, pulite, sembrano incredibilmente sicure.
La scelta comunque va per il piano superiore, piu’ che altro per la vista. E come si apre la porta vieni inondato da una familiarità mai assaporata in Africa. Le maniglie, gli infissi, i mobili, le mattonelle, tutto ricorda le pensioni economiche dei giri in Italia ai tempi del liceo.
E poi, per strada, questo mondo sembra un paesotto di provincia del Nord Italia, con le stesse case, gli stessi lampioni, le stesse tegole sui tetti, le stesse insegne di 30 anni fa, il Bar della Posta, il Bar 3 Stelle, il Bar Torino, e – guarda! – le mattonelle sul marciapiede che sono le stesse della terrazza della zia, quelle vecchie piastrelle di cemento con un motivo floreale liberty degli anni 30.
Insomma, potresti essere a Borgofranco o a Santhia’. Pero’ con le palme, e con i bar dove si sente solo reggae o musica etiope, e con i bianchi che non ci sono piu’, come se se fossero andati, perche’ la battaglia l’hanno vinta gli extra comunitari. Sembra l’incubo di Bossi. E le palme la rivincita dei Verdi – mannaggia, avevano ragione sul global warming; avremmo dovuto ascoltarli…
Ti domandi cosa possa essere successo, e poi scopri che tutto stava andando per il verso giusto, fino a quando Zebib, quell’omino che ogni notte andava a giro per la citta’, mentre tutti dormivano, a caricare gli orologi, spari’ nel nulla. Forse si era stufato, o forse aveva semplicemente deciso di andare in pensione, fatto sta’ che il tempo si fermo’. Qualcuno lo aveva visto a Massawa, che si accingeva ad andare a pescare, altri ad Agordat, che cercava benzina, ma probabilmente era finito a Tesseney, a due passi dal Sudan, dove si dice che avesse un cugino. Tutti sapevano che Zabid era un fumatore accanito, e un gran bevitore di Araq, soprattutto quando giocava a domino, e che non sopportava il fiatone che gli veniva, data l’altitudine, ogni volta che saliva le scale, e che tutte le notti, con tutti quegli orologi da caricare, di scale ne saliva una cifra. E poi che fin da piccolo lui aveva avuto un debole per i cammelli, e che ad Asmara era un problema averne uno – ma ve lo immaginate voi andare in giro con un cammello per la citta’? No, no, davvero impensabile.
Provarono a cercarlo, ma ci furono subito grossi problemi. Come si puo’ pensare a un gruppo di africani e italiani che si danno appuntamento per trovare una persona scomparsa in un paese senza orologi? Gia’ sarebbe stato difficile in Svizzera, figuriamoci in Africa. Percio’ fu un fallimento totale, tanto che, piano piano, si dimenticarono di quel problema, perche’ almeno il sole e la luna c’erano ancora; e la vita ad Asmara continuo’ ad andare avanti.
Cosi’, adesso, esci una mattina, fai pochi passi e vedi un cartello stradale, identico a quello a cui passavi accanto ogni giorno, a nove anni, quando andavi a scuola, coi pantaloni corti e la cartella in spalla. Ti avviavi per Corso Massimo d’Azeglio’, superavi la Cartoleria Mora, ed era li’, subito prima dell’incrocio. Forse era stato fabbricato nelle Marche, o tra Bergamo e Milano, e negli anni ‘60 il Comune di Ivrea ne aveva ordinati un po’, e cosi’ aveva fatto la citta di Asmara. Tu lo avevi incrociato per anni, finche’ un giorno non spari’, perche’ il marciapiede era stato riasfaltato, e il cartello inghiottito dal progresso e sostituito da un semaforo.
Ora, decenni dopo, lo reincontri piantato li’, in un marciapiede pavimentato con le piasterelle del terrazzo della zia, avvolto da una luce africana tagliente come un rasoio, e per un attimo risenti il sapore in bocca di quelle mattine lontane, e il peso di una cartella rossa sulle spalle. Hai una fitta al cuore, un nodo in gola. In un baleno ti scorrono davanti agli occhi gli anni della tua vita, i sogni avverati, quelli persi, le delusioni, gli errori, gli amici incontrati e smarriti, gli innumerevoli errori che avresti potuto evitare col senno di poi, tutte le belle giornate ormai andate per sempre.
E ti domandi: dove e’ finito quel bambino? Con la merendina nella cartella, un sorriso stampato in faccia, la testa libera da ogni pensiero?
Succede cosi’, una mattina ad Asmara, uscendo dall’Africa Pension.