1977 | Il nuovo album di Andrea Fascetti, la musica essenziale.
di Marco Lupetti9 Giugno 2020
Real music no needs superstructures #3
Le storie di Miles Davis e dei Beatles, raccontate nelle precedenti due parti, mi sono tornate in mente ascoltando “1977“, il recente album del bassista Andrea Fascetti.
La formazione del disco è il trio con pianoforte, una delle configurazioni più classiche della storia del jazz. Fascetti è accompagnato al piano da Riccardo Arrighini e alla batteria da Vladimiro Carboni. La strumentazione ha però anche un lato elettrico, dato proprio dal caratteristico strumento del leader; un basso a 7 corde, che permette a Fascetti escursioni nel registro chitarristico.
L’ascolto del disco mi ha fatto pensare, come nel caso di Miles Davis e dei Beatles, ad una musica priva di sovrastrutture. “Birth of the Cool” è entrato nella storia con la sola forza della musica, nonostante l’indifferenza del pubblico e lo scetticismo dell’etichetta discografica. Le demo di Esher, così grezze e scarne, rivelano tutta la bellezza delle composizioni e, in molti casi, la visione completa dell’opera finita. La bellezza è insita nella musica nella sua forma più pura: tutto quello che in seguito è stato aggiunto, detto e scritto è una sovrastruttura. La musica in ambedue i casi parla da sé, nella sua essenzialità.
Il disco di Fascetti è fatto letteralmente con tre strumenti: basso, piano e batteria. In opere precedenti – penso soprattutto a “Music for Bass”, il disco in duo con Ugo Bongianni – Fascetti puntava anche all’espansione della gamma timbrica e alla sovrapposizione di layers sonori. Qui non ci sono sovraincisioni, non ci sono suoni elaborati in studio. La musica ha una consistenza “materica”, tutto l’album è registrato in presa diretta, non ci sono filtri tra l’esecuzione e quanto si ascolta su disco.
Parlando di jazz, in questo sembrerebbe non esserci niente di straordinario: l’arte dell’improvvisazione dovrebbe portare, anche in studio, a dare forma definitiva alle composizioni nello spazio di poche takes. Ma oggi, anche in Italia, quello che viene chiamato genericamente jazz, nelle mani delle majors è spesso musica dai grandi numeri commerciali. Si punta alla collaborazione di richiamo, magari con un celebrato cantautore, alle apparizioni in TV, alla partecipazione a manifestazioni di largo impatto mediatico. In casi simili, è facile che il processo creativo sia vittima di qualche sovrastruttura; e rimanga poco di quello che dovrebbe essere frutto della creazione estemporanea.
Il trio di 1977 invece è una formazione di esperti improvvisatori che, all’occorrenza, non ha bisogno di artifici tecnologici per raggiungere il risultato finale. Fascetti passa da un accompagnamento essenziale, talora contrabbassistico, a voli solisti nei registri acuti, sfruttando come si è detto la conformazione del proprio strumento. Arrighini tra sé e sé canta i propri assoli, passando dalla velocità virtuosistica a momenti di pensosa intensità; la sua voce è sempre lì, dietro alle linee del pianoforte, come una guida a tracciare la direzione dei propri interventi solisti. Il drumming di Carboni è sempre pieno di colori. La varietà timbrica dei tamburi sempre ben accordati e differenziati nelle parti percussive e ritmiche; le nuages dei piatti usati con pochi tocchi essenziali nei momenti più lievi e riflessivi.
Undici sono i brani che compongono l’album, otto dei quali usciti dalla penna del bassista toscano. Le nuove composizioni di Fascetti, sia quelle a ritmo veloce che quelle in forma di ballad, hanno una costante attenzione alla componente tematica: con il ripetersi degli ascolti, le melodie di ogni brano risultano cantabili. “Sometimes I See” di Pat Metheny e “First Song” di Charlie Haden sono composizioni straordinarie dal pathos profondo. Nel loro arrangiamento, il trio fornisce interpretazioni di grande intensità, all’altezza della scrittura. Il disco si chiude con lo standard di Victor Young, il celeberrimo “Stella by Starlight” (la bonus/ghost track del CD). Stella viene affrontata su un mid-tempo a tratti grintoso, che conferisce alla ballad originale un piglio solare e coinvolgente.
In conclusione, qui come in “Birth of the Cool“ e nelle “demos di Kinfauns“, la musica ha la sincerità di ciò che non ha bisogno di sovrastrutture per arrivare al cuore: la materia di cui sono fatte le opere destinate a restare.