2018, Londra.
All’asta di Sotheby’s l’opera “Girl with balloon” di Banksy viene battuta per un milione e quattrocentomila sterline. Mentre il martelletto del battitore scocca sul tavolo, la tela scivola dalla cornice e si distrugge fino a più della metà. Immediatamente il suo valore sale fino ad arrivare quasi al doppio.
Il film
Con queste immagini si apre il documentario “Banksy: l’Arte della Ribellione” di Elio Espana e così facendo mostra subito come intende sviscerare la parabola dello street (?) artist di Bristol; non un’indagine sulla sua identità nascosta – che pure c’è – ma l’evoluzione della sua arte presa a paradigma di una delle correnti più importanti dell’ultima arte contemporanea. Quella che parte dal Graffitismo puro, legato alla scena underground e alla cultura Hip Hop, e arriva alla Street Art; alle mostre nelle gallerie e, appunto, alle aste di Sotheby’s.
Grazie agli interventi degli street artist Eine, Alan Ket, Scape Martinez, personaggio quasi “manageriale”, curatore delle esposizioni/performance di Banksy, Steve Lazarides ed altri; Espana ricostruisce nella prima parte del film l’avvento del graffitismo a Bristol. Dalla figura pioneristica di 3D aka Robert Del Naja (tra l’altro, uno dei profili più gettonati dall’opinione pubblica come nome che si nasconderebbe dietro l’identità Banksy) alle session di graffiti nel Mild Mild West, fino a citare e raccontare figure come Jean-Michel Basquiat, Keith Haring e Blek le Rat.
“L’arte contemporanea è disastrosa. Mai nel campo della storia umana è stato fatto così tanto da così tanti per dire così poco. L’arte contemporanea è stata cancellata a causa dell’intervento della polizia. La gente dice che i graffiti sono brutti, irresponsabili e infantili… ma solo se fatti bene.”
Banksy
L’interrogativo che muove tutto il film sembra ruotare attorno all’emancipazione borghese che la Street Art avrebbe ottenuto sul mondo dei graffiti; iniziata proprio dai mostri sacri appena citati. Quando è successo che la Street Art è divenuta arte contemporanea? Quando le opere realizzate per essere popolari, per esistere solo sui muri delle città, si sono spostate nelle gallerie, arrivando a costare cifre a due, tre, quattro, sei zeri? E quanto ha pesato su questa (in)voluzione il cosiddetto “Effetto Banksy“?
Domande simili se le poneva anche il recente documentario L’uomo che rubò Banksy di Marco Proserpio. Il film italiano, però, si soffermava soprattutto su quale fosse il confine fra il giusto e lo sbagliato, nell’asportare pezzi di muro per poi esporli in musei, gallerie, case d’asta o salotti; e lo faceva partendo proprio dal caso del “Donkey’s Document” di Banksy in Palestina.
Fino ad arrivare alla nostrana mostra di Blu organizzata a Bologna che causò l’insofferenza e la rivolta dell’artista; e di buona parte del mondo della Street Art. Il documentario di Proserpio usciva nelle sale nel 2018, poco prima che la “performance” da Sotheby’s desse, a chi avesse voluto leggerla, la risposta ironica di Banksy all’interrogativo del film.
Espana invece, che comunque si prende del tempo anche per riflessioni del genere da parte degli intervistati, sembra dare per assodata la presenza dell’arte di strada nell’alta società culturale di piazze come Londra o Los Angels; ma non smette di chiedersi se rimane ancora in lei il primo e vero germe di questo movimento oggi enorme e globale: il Vandalismo.
Ripercorriamo la massiccia opera sulla barriera Palestinese di Banksy, la sua prima incursione illegale nei musei di Londra, l’esposizione – stavolta legale – nella sua Bristol che ha cambiato radicalmente volto. Esiste, o esiste ancora, in Banksy e nell’ “Effetto Banksy” quella spinta alla sovversione artistica, alla natura popolare, importata dall’America in Europa?
Lo scempio operato su “Girl with balloon”, che ha pure raddoppiato il suo valore economico, è infondo l’ultima opera di un vandalo?