Un manifesto misterioso (è firmato solo “me”) apparso in questi giorni sui muri di New York. Chi l’ha creato? Con quale fine? Leggi quest’articolo e capirai che potrebbe essere una sofisticata operazione di depistaggio…
Il sole e’ tramontato da un pezzo. E’ la notte di Halloween, la notte dei morti viventi. E scrivo queste note mentre riesco a malapena a non pisciarmi addosso dalle risate, perche’ ho appena finito di leggere un articolo di Heather Havrilesky, che e’ una scrittrice e blogger americana nota per la sua critica tagliente della cultura televisiva (e per una vecchia rubrica illustrata a fumetti su suck.com, un sito con un nome che la dice lunga sul suo stile di scrittura).
La tesi di Heather e’ semplicissima: i morti viventi che ci circondano, che popolano la nostra fantasia, la nostra cultura pop, e che ultimamente stanno dilagando nei palinsesti televisivi, non sono tutti uguali. Ci sono i vampiri e ci sono gli zombie. I vampiri sono sexy e fanno palpitare il cuore alle ragazzine. Gli zombie sono ripugnanti e fanno barricare in casa i padri di famiglia (ovviamente armati di fuciloni a pompa, con il colpo in canna, quando si parla dell’America).
Questa diversa reazione e’ abbastanza ovvia. Perche’ i vampiri sono dei seduttori melliflui, ipnotici, eleganti, atletici e carismatici. Anche se bevono sangue lo fanno con tutta la grazia di un grande intenditore di fronte ad un prezioso vino d’annata. E sono fondamentalmente dei solitari, degli antisociali incompresi, languidi nel loro tormento esistenziale, che almeno di giorno si infilano in una bara a dormire.
Gli zombie invece sono purulenti, deformi, sdentati, straccioni. Sono brutti per definizione. Eppure, nonostante tutto il ribrezzo che possono suscitare, presi singolarmente non dovrebbero farci nemmeno troppa paura, visto che si muovono con lentezza esasperante, barcollando come degli ubriaconi completamente rincitrulliti. Diventano pericolosi solo perche’ sono dei grandi estroversi, che si aggregano in branchi rumorosi, o almeno perennemente mugugnanti, come la folla di un mega rave impasticcata da un acido decisamente troppo tossico per gli esseri umani.
Se proprio uno dovesse diventare la vittima di un morto vivente, beh, con un vampiro l’attacco e’ inaspettato e repentino: un morso sul collo, un bel succhiotto, tu perdi i sensi, e quando ti risvegli godi di vita eterna (anche se non potrai mai piu’ prendere la tintarella in riva al mare, un’attivita’ che comunque non e’ piu’ neanche alla moda). Con gli zombie e’ invece terrore puro al rallentatore: un’avanzata maldestra ma inesorabile, che non puoi sperare di arrestare nemmeno se sei armato meglio di Rambo (perche’ prima o poi le cartucce finiscono sempre), e quindi loro ti agguantano, ti squartano, ti divorano vivo, rosicchiandoti come una muta di cagnacci rabbiosi, che non e’ davvero un bel modo di chiudere una vita.
In tutto questo, voi mi direte, non c’e’ nulla di nuovo. Vero. Ma la cosa si fa’ piu’ intrigante perche’ Heather propone che la dicotomia vampiri/zombie e’ una lente perfetta per capire tutto o quasi quello che c’e’ da capire del mondo in cui viviamo. Politica: Barack Obama, lungo lungo, secco secco, cosi’ intelligente, e’ un vampiro; il suo predecessore George Bush, guerrafondaio, populista, torturatore, e’ uno zombie. Musica: Sid Vicious vampiro; Bono zombie. Web 2.0: Facebook zombie (dico: ma l’avete mai guardato un faccia Mark Zucherberg?); Twitter vampiro. Tecnologia: Bill Gates zombie; Steve Jobs vampiro…
Ed eccoci al colpo di fulmine che mi ha mandato in corto circuito il cervello. Non so’ come la pensate voi, ma a me tutte queste interminabili celebrazioni del genio di Steve Jobs, tutta questa pletora di meline che hanno invaso i wall di Facebook, e le candeline accese di fronte agli Apple Store, e le citazioni continue su giornali, riviste, programmi Tv del suo estro inimitabile come designer di gadget, architetto di negozi, manager aziendale, guru della pubblicita’, benefattore degli azionisti, profeta del consumismo postmoderno, mi hanno scassato parecchio i coglioni.
Deliri della creativita’ funebre. La prima immagine a sinistra e’ una foto dell’agenzia Reuters. Tale foto potrebbe avere (o non avere) ispirato Jonathan Mak, uno studente di grafica di Hong Kong di 19 anni, a creare lo scorso agosto l’illustrazione che gli sta’ accanto. Poi Steve Jobs e’ morto. L’illustrazione di Mak, copiata e ricopiata ovunque, e’ diventata una sensazione virale in tutto il mondo. E lui si e’ ritrovato insultato da dozzine di sconosciuti, perche’ il suo lavoro appariva molto simile ad un’altra illustrazione, realizzata in positivo pochi mesi prima da Chris Thornley, un designer inglese di 40 anni. Nel frattempo quell’icona aveva preso vita propria, generando dozzine di varianti amatoriali (come la terza) o professionali (come la quarta, opera di Ji Lee, su commissione del New York Times, per accompagnare uno dei mille articoli sulla genialita’ di Steve Jobs).
Sulle ragioni che spingono molti consumatori, altamente intelligenti e sofisticati, a perdere completamente il lume della ragione di fronte ai prodotti marchiati Apple sono state avanzate nel corso degli anni molte teorie. In quel passato ormai remoto che ha preceduto il successo di massa dell’iPhone e poi dell’iPad, l’era del Mac per intenderci, quando la fascinazione per i computer della Apple era retaggio quasi esclusivo dei professionisti della creativita’ (artisti, video maker, graphic designer, musicisti), era abbastanza comune sentire descrivere questa clientela come un culto di tipo religioso (con Steve Jobs ovviamente nel ruolo del guru).
Nel 2004, Leander Kahney si prese la briga di pubblicare un libretto, intitolato appunto “The Cult of The Mac”, che sull’onda dell’entusiasmo dei fedeli del brand divenne piu’ o meno all’istante un bestseller. Steve Wozniak, il mitico cofondatore del marchio della mela, arrivo’ a commentare l’evento con queste parole: “Il Macintosh e’ piu’ di un computer, e’ un modo di vivere. Questo libro racconta cosa vuol dire essere una persona Macintosh. Permette di capire il piu’ grande amore e la piu’ grande fede verso qualsiasi prodotto della nostra era.”
Se questa non suona come una pubblicita’ del Vangelo poco ci manca. E credo che chiunque possa ricordare almeno un amico convertito a quella religione che, con foga pari a quella di un testimone di Geova, gli ha fatto un capo come un cestone per cercare di convincerlo ad unirsi alla sua stessa chiesa (il mio torturatore personale era un carissimo amico, industrial designer, capace di descrivere con toni da orgasmo le superfici plastiche dei suoi svariati Mac, ma assolutamente incapace di considerare che tutti i software, i database e gli strumenti di programmazione necessari per il mio lavoro su quelle macchine non potevano girare… amen).
La copertina di “The Cult of the Mac” trasformata da un fan in wallpaper
Nelle ultime settimane questa metafora religiosa e’ stata ripresa, e completamente ribaltata, dai paladini dell’Free Software e dell’Open Source. In un post che ha scatenato un tsunami di polemiche, Richard Stallman (il celeberrimo attivista della liberta’ informatica che ha inventato le licenze GNU) e’ arrivato a descrivere Steve Jobs come una sorta di diavolo incarnato, che non solo ha trasformato computer, telefonini e tablet in galere digitali, piene di lucchetti elettronici che ci impediscono di installarci sopra il software che ci pare, di copiare e condividere i contenuti che ci stanno sopra, di usarli insomma in maniera veramente libera, ma che e’ pure riuscito a convincere milioni di consumatori che tale schiavitu’ e’ qualcosa di incredibilmente “cool”.
Eric Raymond (il saggista libertario che ha scritto “The Cathedral and the Bazaar”) gli ha fatto eco sostenendo: “Il successo di Jobs nell’ipnotizzare milioni di persone in un amore perverso per i giardinetti recintati, nel lungo termine e’ piu’ pericoloso per la nostra liberta’ del corporativismo efficente ma brutale e non attraente di Bill Gates. La gente teme e rispetta Microsoft, ma ama e adora Apple. E questo e’ precisamente il problema, precisamente la ragione per cui alla fine Jobs ha fatto molto piu’ male che bene.”
Steve Jobs visto come il Padre Eterno… Steve Jobs visto come il diavolo incarnato…
A me questo modo di far polemica fa’ un pochino sorridere, perche’ avendo conosciuto di persona parecchi evangelisti del software libero trovo che siano spesso tanto fanatici e intolleranti quanto i vecchi cultisti del Mac (guai a lasciargli in mano il tuo laptop: rischi di ritrovartelo esorcizzato, con l’hard drive piallato e una bella installazione di Linux sopra!). Resta pero’ il fatto che nella sostanza di quello che dicono c’e’ della gran verita’, e che con l’arrivo dell’iPod, dell’iPhone e dell’iPad le legioni dei fedeli Apple sono cresciute in una moltitudine infinita, tanto che non si puo’ piu’ parlare di un culto pittoresco, eretico e minoritario, ma di una denominazione di fede che potrebbe far concorrenza alla chiesa cattolica o all’islam (con Jobs nel ruolo del papa o del grande ayatollah).
Detto questo, rieccoci allora alla dicotomia iniziale. Che Steve Jobs sia defunto mi pare fuor di dubbio: c’e’ un certificato di morte dell’anagrafe, un reperto medico dei suoi dottori, un bel cadavere che la sua famiglia ha seppellito sotto terra. Allo stesso tempo che Jobs sia ancora vivo mi pare altrettanto evidente: la sua faccia, il suo nome, le sue parole, il suo mito continuano a balzar fuori ogni volta che uno accende la Tv, apre un giornale, naviga internet.
E se Jobs e’ un morto vivente, che tipo di morto vivente e’ esattamente? E’ uno zombie (come ci dicono i guru del Free Software), che si e’ succhiato il cervello dei consumatori, trasformandoli in un’orda di tossicodipendenti, costantemente alla ricerca di una nuova dose di prodotti Apple, anche se non hanno ancora finito di pagare le salatissime rate del loro iPhone di penultima generazione? O e’ un vampiro (come sostiene Heather), cosi’ seducente da far regredire chiunque lo incontra alla condizione di una quindicenne afflitta da cotta adolescenziale, che passa le giornate ad incollare sue foto nel diario, a comporre poesie zuccherose in suo onore, e a disegnarci attorno cuoricini (ops, meline) colorate?
Quattro esempi di “fan art”, raccolti fra le centinaia e centinaia di immagini (o forse bisognerebbe dire santini) che la morte di Steve Jobs ha spinto gente di tutti i tipi a creare in suo onore e a pubblicare in rete.
Per trovare una risposta un po’ piu’ razionale e scientifica a questa domanda di fondamentale importanza credo che valga la pena di citare il lavoro di Martin Lindstrom, un consulente americano specializzato nell’analisi della percezione dei marchi commerciali (il suo ultimo libro e’ intitolato “Brandwashed” e, come spiega il sottotitolo, e’ dedicato ai “trucchi che le aziende usano per manipolare le nostre menti e persuaderci a comprare”). Lindstrom non e’ uno dei tanti parolai fanfaroni che sembrano proliferare nella professione del marketing. E’ piu’ uno scienziato. Per arrivare alle sue conclusioni lui usa complessi esperimenti di laboratorio, misurando le reazioni di cavie umane con gli strumenti piu’ sofisticati che la moderna tecnologia medica ci mette a disposizione.
Ipotesi: e’ possibile che uno smarphone interagisca con il nostro cervello come una droga? A prima vista ci sono parecchi indizi che potrebbero farci pensare di si’. Quando il proprietario di un iPhone se lo dimentica per sbaglio a casa e’ comune che provi uno stato di stress, di isolamento, di incompletezza, ovvero una condizione che agli occhi di Lindstrom ricorda la cosidetta “ansia da separazione”. Ognuno di noi ha poi sicuramente notato quella sindrome che spinge chiunque si trovi a portata d’udito di un telefonino che squilla ad infilarsi immediatamente le mani in tasca per controllare se e’ il suo. E che dire di quella irrefrenabile tendenza, qualunque altra cosa uno stia facendo, a controllare e ricontrollare ogni pochi minuti lo schermo dello smartphone per vedere se ci sono nuove mail o messaggini?
Secondo alcuni psicologi tutti questi comportamenti sembrano suggerire l’attivazione di un meccanismo neurale simile a quello provocato da sostanze e attivita’ che generano una dipendenza compulsiva (come il cibo, le sigarette, la cocaina, i videogame, il gioco d’azzardo), stimolando la produzione di dopamina, il componente chimico che nel nostro cervello e’ associato con una sensazione di piacere. Ma e’ veramente cosi’? O e’ solo una coincidenza ingannevole?
Per capirlo Lindstrom ha condotto diversi esperimenti utilizzando uno scanner fMRI (functional magnetic resonance imaging), ovvero una macchina che visualizza con estrema precisione quali parti del cervello entrano piu’ o meno in funzione durante una certa attivita’. In uno di questi test Lindstrom ha mostrato alle sue cavie una serie di foto, mescolando i prodotti di alcuni dei brand piu’ desiderabili del mondo (come Apple o Harley-Davidson) con immagini legate all’iconografia di alcune grandi religioni (come una foto del papa o di un rosario), e scoprendo che i network neurali attivati erano esattamente gli stessi.
In un secondo test ancora piu’ specifico, condotto su un campione di 16 giovani di eta’ compresa fra i 18 e i 25 anni, divisi a meta’ fra uomini e donne, sono stati mostrati ai soggetti dei video di un iPhone che si muoveva vibrando (senza sonoro) oppure che squillava (senza muoversi). I risultati degli scan fMRI hanno sospreso i ricercatori, perche’ hanno dimostrato che in entrambi i casi veniva attivata in contemporanea tanto la regione del cervello che processa la vista quanto quella che processa l’udito (in altre parole: i giovani “vedevano” il telefonino che squillava e “udivano” quello che vibrava!), scatenando una potente reazione involontaria che gli esperti chiamano “sinestesia”.
La conclusione chiave degli scan neurali condotti in questo caso e’ stata pero’ un’altra, ovvero il fatto che la matrice di attivita’ cerebrale non rispecchiava tanto quella della dipendenza compulsiva, quanto quella dell’amore e della compassione, esattamente come il nostro cervello risponde di fronte a qualcuno per cui proviamo affetto (un fidanzato, una moglie, un figlio, un genitore). Da questo consegue che i prodotti Apple non “drogano” i loro utenti ma li fanno letteralmente “innamorare”. E quindi che Steve Jobs non e’ uno zombie ma un vampiro!
Tutto questo, a mio modestissimo parere, e’ interessante perche’ spiega alcuni piccoli misteri. Come l’ossessione di Jobs per quei maglioncini neri a collo alto (ovviamente perfetti per nascondere le cicatrici di un bel morso sul collo). O la decisione della sua famiglia di non rivelare dove esattamente sia stato sepolto (non sia mai che qualcuno, passeggiando di fronte alla tomba dopo il calare del sole, si accorga che dentro non c’e’ nessuno). Ancora piu’ importante: ci offre pure la speranza che al tormentone Steve Jobs si potra’ un giorno mettere fine. Perche’ e’ vero che di natura i vampiri vivono in eterno, o comunque molto, molto a lungo, ma e’ altrettanto noto che si possono uccidere. Qualcuno vuol cominciare ad appuntire un bel piolo di legno duro?
Il sorrisetto malefico dietro a cui si nasconde un vampiro…