Quando mi trovo a discutere del Marvel Cinematic Universe con qualche amico appassionato del genere, prima o poi, raggiungiamo sempre tre punti d’incontro che ci mettono d’accordo:
- Hanno sicuramente inventato un “universo” (appunto) originale.
- Hanno sicuramente inventato un’estetica che appaga appieno lo spettatore.
- Di tutte le pellicole della saga, i film degni di tale nome si possono contare sulle dita di una mano; e, molto spesso, quelli restanti sono solo una dolce carezza sulla nuca del fandom Marvel.
Se per me è incredibile trovare dei punti d’incontro con un fan del MCU è ancora più incredibile riscontrare che i tre punti sopracitati sono la perfetta descrizione dell’intera filmografia di Wes Anderson; con la piccola differenza che il fandom Andersoniano asserirà fino alla morte che qualsiasi film del loro idolo è “pura poesia” o “cinema allo stato puro”. Il tutto mentre si stanno recando in un negozio di libri usati per cercare una rarissima edizione di “Narciso e Boccadoro” (probabilmente quella con la copertina marmorizzata).
Dopo la visione di “Grand Budapest Hotel” ero davvero incuriosito e carico di buone aspettative, aspettative che sono cadute in un sonno criogenico dopo la visione di “The French Dispatch”, il decimo film di Wes Anderson che lo ha scritto, diretto e prodotto.
“The French Dispatch”
Tutta la storia è incentrata sulla redazione del “French Dispatch”, supplemento di un quotidiano del Kansas: l’“Evening Sun”. Il giornale si occupa di cronaca e cultura generale, e vanta le penne più prestigiose del settore (una sorta di Vice del XX secolo ndr).
Alla morte del suo direttore Arthur Howitzer Jr. (interpretato dalla sagoma di Bill Murray), la redazione del giornale decide di pubblicare un’edizione speciale composta dagli articoli più importanti pubblicati dal magazine negli ultimi dieci anni. Tra questi anche le tre storie raccontate in “The French Dispatch” e ispirate a giornalisti o articoli pubblicati nella realtà dal celebre “The New Yorker” (scherzavo sulla cosa di Vice).
A questo punto occorre ricordare i capisaldi dell’estetica di Wes Anderson:
- Inquadrature simmetriche.
- Colori pastello.
- Atmosfere retrò.
- Personaggi che corrono sulla sottile linea tra buoni e cattivi .
- Colonna sonora ricercatissima.
- Una cura scrupolosa e maniacale delle scenografie e degli oggetti di scena.
“The French Dispatch” è la versione al cubo di questa poetica. Come lo hanno definito molti prima di me, è il film più “Wes Andersoniano” di sempre; che arriva a dei picchi quasi parodici, come se Wes Anderson stesse cercando di imitare Wes Anderson.
Fin dal primo fotogramma le nostre retine sono bombardate da un flusso di immagini, inquadrature perfette, tonalità pastello; simmetrie ostentate, luci e passaggi dal colore al bianco e nero (cosa che ho molto apprezzato) che ci ipnotizzano e ci incollano allo schermo in sala. Ma che allo stesso modo ci fanno domandare se realmente dietro a tutta questa impalcatura fatiscente e colorata di pastello esista davvero un film interessante.
Si, perché l’impressione che ho avuto dopo la visione è proprio che al caro Wes sia sfuggita la mano; che nella doverosa attenzione ai particolari estetici (e qui mi ripeto, certe inquadrature sono davvero spettacolari) si sia dimenticato del contenuto.
Ci sono sicuramente molti accenni sociali e politici interessanti; come ad esempio l’eterna lotta tra arte e mercato dell’arte, che però rimangono aperti senza una concretizzazione reale. Quello che ci rimane è solo una sequenza di fotogrammi perfetti atti a far impazzire qualsiasi suo fan accanito; il quale ride alle battute pronunciate dai personaggi (volutamente) inespressivi, mentre pensa che, appena uscito dalla sala, dovrà controllare su Vinted se quella giacca scamosciata anni ’70 è ancora in vendita per farci un pensierino.
Il cast sembra il tabellone di “Indovina chi?”, decine e decine di grandi attori, pronti a sbucare all’improvviso da un angolo per farti esclamare: “Wow ma è davvero lui/lei?”; e anche qui mi interrogo se sia davvero funzionale ai fini della pellicola infilare un così ampio cast. È sicuramente lo stile a cui il regista del Texas ci ha abituato, ma anche qui è portato all’estremo.
In conclusione “The French Dispatch” è un film consigliassimo per chi ama Wes Anderson. Sicuramente da vedere per l’estetica riprodotta davvero suggestiva; anche perché penso che a fine riprese attrezzisti, trovarobe e scenografo sia siano presi 5 anni sabbatici per riprendersi dalla fatica.
Per fare una similitudine con il film penso ai programmi di cucina che tanto ci piace guardare in tv, dove vediamo piatti bellissimi, coloratissimi e che ci fanno pensare “Deve essere buonissimo!”; ma noi in realtà non lo sappiamo, anzi magari c’è pure troppo sale, oppure troppo poco.
Anderson porta avanti un discorso eccessivamente legato a questo periodo storico particolarmente futile, sospeso nel nulla e veloce; dove è molto più importante la forma del contenuto e dove, appunto, un piatto di pasta nella nostra testa è buonissimo perché è bellissimo.
Forse ha ragione lui, forse è semplicemente un film contemporaneo. Mentre ragiono da passatista estremista, so soltanto che se, ipotizzando, mi dovessi trovare in vacanza con Wes Anderson, lo abbandonerei per andare a vedere musei e locali tipici; mentre lui è chiuso dentro al quinto negozio di antiquariato nel giro di 2 ore.
Devastante
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