“One-two-three-four!” Quindici minuti con un pioniere del punk
di Davide Deiv Agazzi29 Gennaio 2012
Destino infame quello che ti porta ad intervistare uno dei tuoi miti di gioventù, Marky Ramone, batterista della prima, e più longeva, band punk rock della storia. Infame perchè il buon Marky lo vorresti prendere sotto braccio per chiedergli di tutto di più e invece ti dicono “avete un quarto d’ora”. Avete perchè non ci sono solo io, ma un po’ tutta la stampa fiorentina in questo breve incontro all’Hard Rock Cafè di Firenze.
I Ramones sono una di quelle band che passa alla storia, per una miriade di motivi. Primo: sono considerati la prima punk band in assoluto (nonostante, ovviamente, ci fossero stati esperimenti antecedenti di proto-punk).
Secondo: il look e lo stile. Il taglio di capelli con la frangetta, il giubbotto di pelle nera, i jeans sdruciti e le immancabili Converse. Immutabili nel tempo. Stesso dicasi sul versante musicale, nonostante vari tentativi, tutti falliti, di cambiare la loro rodatissima formula per risultare più radiofonici. Canzoni di due minuti e mezzo, massimo tre, fatte da quattro accordi, zero assoli di chitarra, tecnica approssimativa ma energia indescrivibile. Tutte, e dico tutte, puntualmente introdotte dall’immancabile “one-two-three-four!”. Un live dei Ramones poteva durare 50 minuti, arco di tempo nel quale erano in grado di snocciolarvi quasi 30 pezzi. No, dico: 30!
Terzo: l’innegabile influenza avuta su tutta quella serie di gruppi americani, californiani in particolare, che invece il successo radiofonico l’hanno trovato eccome (Green Day? Offspring? ci siamo capiti…), paradossalmente proprio nel momento in cui i Ramones chiudevano baracca e burattini al termine del loro ultimo tour mondiale, tour che accompagnava un disco profeticamente intitolato “Adios amigos”.
Quarto: le loro innumerevoli apparizioni nella cultura pop, dalla citazioni nei libri di Stephen King (si ricordi anche il video per “Pet Sematary” dall’omonimo libro del maestro dell’horror) alla comparsata nei Simpson, per non parlare del loro riconoscibilissimo logo.
Infine un ricordo personale: io a quell’ultimo tour c’ero. Li vidi dal vivo a Budrio, sarà stato il ’96. Joey già stava male, cantò solo per metà concerto, lasciando intravedere quello che gli sarebbe capitato, purtroppo, di lì a poco. Detto questo, non ricordo altro concerto che mi abbia mai, e dico MAI, coinvolto così tanto, almeno a livello emotivo. Ritrovarsi abbracciato a gente sconosciuta, tendenzialmente puzzolente, a cantare a squarciagola i loro classici, è un’esperienza che non ha prezzo. E che ti segna. A fine concerto, nel momento in cui si accesero le luci, c’erano punk di 50 anni che si misero a piangere. Ripeto, c’erano 50enni che piangevano come bambini ed io avevo, anno più anno meno, a malapena 18 anni. Quel ricordo me lo porterò dietro per sempre.
Rewind ad oggi. Marky è qua per una raccolta fondi contro la fame nel mondo, terrà un meet & greet con i fan e suonerà alcuni dei brani più celebri dei Ramones in una formazione a quattro che lo vede protagonista assieme a Jacopo Meille, Gianluca Veronal e Giacomo Castellano. Il tempo concessoci, purtroppo, è pochissimo. Vedremo di farcelo bastare. A me il compito di rompere il ghiaccio con la prima domanda e di chiudere il cerchio con l’ultima.
Ok, per prima cosa vorrei sapere quando hai sentito per la prima volta la parola “punk”. Poi vorrei sapere da te, cosa pensi di quel movimento di pop punk, emerso attorno al ’95-’96, con epicentro in California, bene o male nel momento in cui voi stavate lasciando. Mi riferisco in particolare a due etichette: la Epitaph e la Lookout.
Beh la prima volta che ho sentito la parola punk è stato negli anni ’50, periodo nel quale questa parola veniva associata a personaggi come Marlon Brando o James Dean. Nei primi anni ’70 questa etichetta fu data invece a Richard Hell ed a gruppi simili al suo. Io poi, in questo caso parlerei di pop punk, o di punk rock, o di garage punk.
Per venire alla tua seconda domanda, credo che queste etichette, con i loro gruppi, abbiano contribuito a tenere vivo il punk. Gruppi come i Green Day o i Rancid citano sempre i Ramones fra le loro influenze. Questi gruppi ormai sono a giro da vent’anni. E’ vero che i Ramones non ci sono più ma le persone non cambiano. Le situazioni non cambiano. Nelle canzoni si parla sempre di frustrazione, di vita quotidiana, del rapporto con l’altro sesso, delle relazioni fra individui. Le canzoni, se vogliamo, sono le stesse. E’ la tecnologia che è cambiata: adesso tutti hanno una telecamera, un Ipad, cose così.
Hai cambiato il tuo stile nel suonare la batteria quando sei entrato nei Ramones?
Beh, anzitutto c’è da dire che quando mi sono aggiunto al gruppo i Ramones avevano già tre dischi fuori, che io ovviamente mi ascoltai prima di propormi alla band come nuovo batterista. Avevo ripreso parte del mio stile da Richard Hell & the Voivods, mentre quello dei Ramones era fondamentalmente un quattro quarti con un po’ di accenti qua e là. I Voivods invece avevano molti più accenti, molte più sfumature: lo definirei quasi punk jazz.
Quale credi che sia il vero significato della parola punk?
(ride) Beh, immagino che voglia dire esprimere i propri sentimenti all’interno di una canzone di due minuti e, allo stesso tempo, criticare tutto quello che non ti piace — sia esso la politica o la situazione del mondo — alzarsi in piedi e dire la propria. Ci sono molte canzoni su un ragazzo ed una ragazza che si baciano, ma c’è bisogno anche dell’altro lato della medaglia. Le persone devono dire la loro su quello che non trovano giusto, e questo credo sia il significato della parola punk.
Quale credi sia lo stato del rock n roll al giorno d’oggi?
Beh, chiaramente la cosa è molto soggettiva. Personalmente credo che i ragazzi vogliano vedere, e sentire, persone come loro, che suonano strumenti, dal vivo. Qui torno sul discorso della tecnologia che cambia le cose, e questo è avvenuto in modo massiccio nella musica.
Cosa pensi del movimento degli Indignados o di Occupy Wall Street?
C’è tanta ingordigia. Ci sono tante persone che non sono interessate allo stato di salute del pianeta, si limitano a prendere i soldi e scappare. Si prendono le nostre vite, i nostri compensi, le nostre possibilità, la nostra assistenza sanitaria. Quindi trovo sia giusto marciare, sperando che la cosa sia fatta in maniera pacifica. Questo, per non dar loro la scusa per sbattere i manifestanti in prigione.
Tutti devono collaborare e posso anche aggiungere che conosco diversi vigili del fuoco di New York che simpatizzano con i manifestanti. Ma non chiamiamoli hippy. Quello è un termine che si usava negli anni ’60, per indicare coloro che si opponeva alla guerra in Vietnam. La stampa all’epoca li etichettò così. Questi non sono hippy. Questi sono lavoratori che vogliono un lavoro, perchè a causa della disperazione dell’economia, lo hanno perso. Spero che qualcuno li ascolti.
Che differenze trovi tra il punk americano e quello inglese?
Il punk inglese è l’altra faccia di quello americano. Il Cbgb (storico locale della Grande Mela dove il movimento ha mosso i puoi primi passi) aprì nel 1974, e poco dopo la scena inglese cominciò a lavorare su quello che stava già accadendo a New York. Il punk inglese era molto politico, nasceva in un periodo in cui la classe operaia viveva col sussidio, quindi molte band, fra cui i Pistols ed i Clash, cantavano di questo. In America il punk era più… stare bene, divertirsi, fanculo l’autorità, esprimere sé stessi.
C’era anche un sacco di sensazionalismo legato al movimento inglese, ad esempio quando le band di là cominciarono, per provocazione, ad indossare croci celtiche. Nelle radio americane i dj si rifiutavano di passare quella roba. Devi considerare che c’erano persone che avevano combattuto nella Seconda guerra mondiale, quindi posso capire la loro ritrosia nell’abbracciare un certo tipo d’immagine. E’ buona cosa che esistano entrambi, il punk inglese e quello americano: ognuno ha il suo gusto. Sono contento che ci sia stato un locale come il Cbgb dove il movimento si è potuto sviluppare, e che ci sia stato una scena locale affine in Inghilterra che ha potuto mettere in moto lo stesso processo.
Un’ultima chicca: Marky Ramone, da qualche anno, produce la sua personalissima salsa. Si, esatto, quello che noi chiamiamo amichevolmente “il sugo”: la “Marky Ramone’s Brooklyn’s own pasta sauce”. Se siete in America, potete ordinarla direttamente dal suo sito (www.markyramone.com) per la modica cifra (…) di 90 dollari. Ma sono 12 vasetti, eh!
O forse è meglio continuare a ricordarlo come batterista casinaro di una band leggendaria…
Le foto che illustrano questo articolo sono di Emanuela Nuvoli