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IL PROBLEMA SONO QUELLI COME TE
Cinema

Perfetti Sconosciuti, Harry Potter e la scelta del linguaggio



Un paio di settimane fa sono stato al Teatro della Pergola a vedere la versione teatrale di “Perfetti Sconosciuti”, tratto dall’omonimo film, sempre con la regia di Paolo Genovese. Spettacolo super divertente, interpretato magistralmente da Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti e Valeria Solarino. Un caso un po’ atipico, visto che tendenzialmente avviene il contrario.

Dico subito che mi è piaciuto molto più la versione teatrale rispetto a quella cinematografica e il perché è ciò che mi ha portato a buttare giù queste riflessioni.

Per chi non sapesse di cosa parlo “Perfetti Sconosciuti” è un film italiano del 2016 che vanta almeno venti remake nel mondo (credo che sia uno dei film più remakkati della storia). 

La locandina del film

La storia ruota attorno a un gruppo di amici che si riunisce per una cena. Durante la serata, decidono di giocare a un gioco pericoloso: mettono i loro telefoni cellulari al centro del tavolo e accettano di condividere pubblicamente messaggi e chiamate ricevute. Man mano che il gioco prosegue, segreti e verità nascoste emergono, mettendo alla prova la loro amicizia e facendo emergere la domanda: quanto bene conosciamo davvero le persone che ci circondano?

Ora, la versione cinematografica è indubbiamente ben realizzata, divertente e coinvolgente, ma sin dalla prima visione c’era qualcosa che non mi convinceva fino in fondo, pur non capendo bene cosa fosse. Dopo aver visto la versione teatrale invece sono riuscito a mettere a fuoco quale fosse il “problema”: è tutta una questione di linguaggio.

La locandina dello spettacolo teatrale

Chi mi conosce o ha seguito almeno una volta un evento in cui parlo di VR, sa bene quanto la meni sul fatto che la ricerca che sto facendo con la realtà virtuale si basa sulla definizione di un linguaggio che, ripetendo ciò che dico a pappagallo, “non è né cinema né teatro”.

Ma senza tirare in ballo la VR (ci sono già abbastanza occasioni in cui posso ammorbare su quello) affrontiamo un secondo le differenze tra il linguaggio teatrale e quello cinematografico, due forme d’arte distinte che utilizzano metodi diversi per raccontare storie e trasmettere emozioni.

Il teatro, essendo una forma d’arte basata sulla performance dal vivo, ha un forte legame con la presenza fisica degli attori e con l’interazione diretta tra loro e il pubblico. In questo contesto, il testo e il dialogo assumono un ruolo fondamentale, contribuendo a creare un’atmosfera unica e coinvolgente. D’altra parte, il cinema si avvale della registrazione di immagini in movimento e suoni, che vengono successivamente montati insieme per dare vita al film. La comunicazione tra gli attori e il pubblico avviene in modo indiretto, attraverso la visione del regista, che sceglie e organizza le inquadrature e le scene. 

Il linguaggio cinematografico pone una maggiore enfasi su immagini, suoni e montaggio, utilizzando questi elementi per costruire la narrazione e trasmettere emozioni. Un altro aspetto che contraddistingue il linguaggio teatrale da quello cinematografico riguarda le limitazioni tecniche e scenografiche. Nel teatro, le scenografie, i costumi e gli effetti speciali devono adattarsi alla realtà fisica del palcoscenico, mentre nel cinema si possono sfruttare tecniche avanzate ed effetti digitali per creare ambientazioni e scenari molto più elaborati. Questa maggiore libertà artistica permette al cinema di esplorare nuovi mondi e di sperimentare con stili e generi diversi.

La regia e le azioni sceniche sono un ulteriore elemento di distinzione tra i due linguaggi.

 Nel teatro, la regia è focalizzata sulla gestualità, la voce e il movimento degli attori, mentre nel cinema le possibilità espressive si ampliano grazie all’uso di diverse inquadrature, angolazioni e movimenti di macchina. Questa maggiore varietà di strumenti e tecniche permette al regista cinematografico di giocare con la percezione dello spettatore e di manipolare l’esperienza visiva in modi più sofisticati.

Ok, scusate il pippone, ma era necessario per affrontare meglio il discorso che voglio fare.

“Perfetti Sconosciuti” si basa su iperbole. Se stasera facessimo lo stesso gioco con sette amici, molto probabilmente non succederebbe niente. La storia funziona proprio perché esagerata.

Ecco, siamo finalmente arrivati al punto: nel linguaggio cinematografico l’esagerazione porta lo spettatore ad uscire dalla narrazione. È tutto troppo. Non ci credo più.

Nel teatro invece è proprio l’opposto. Proprio perché tutto è più legato alla gestualità, la voce e il movimento, l’esagerazione è semanticamente corretta.

Infatti, la cosa pazzesca è che la sceneggiatura è identica al film, così come la durata della piece, ma la resa è totalmente diversa. 

La riflessione che mi gira in testa da giorni è proprio su quanto sia importante scelta del linguaggio per raccontare una determinata storia.

Per esempio, senza troppo entrare nei dettagli, anche il linguaggio seriale è molto diverso da quello cinematografico e abbiamo visto più e più volte quanto difficilmente funzioni il passaggio di medium dello stesso contenuto (per fare un esempio, il bellissimo Snowpiercer di Bong Joon-ho è diventato una terribile serie su Netflix), senza toccare minimamente il tema delle trasposizioni letterarie o fumettistiche (il classico “era meglio il libro”).

In questi giorni la Warner ha annunciato che farà una serie di sette stagioni su Harry Potter e c’è già stata una mezza sommossa popolare nel web tra i cinefili affezionati ai film.

Premetto che anche io sono affezionato alla saga cinematografica, ma da lettore dei romanzi ho sempre odiato alcune scelte necessarie al cambio di formato (cosa che invece non ho patito nella meravigliosa trilogia de “Il Signore degli Anelli” di Peter Jackson).

Senza entrare nel merito del fatto che è abbastanza ovvio che i detentori dei diritti di un franchise vogliano massimizzarne gli utili (hanno annunciato anche un’operazione analoga per i libri di Tolkien), personalmente trovo questa operazione azzeccata tanto quanto la trasposizione teatrale di “Perfetti Sconosciuti”, ovvero l’individuazione di un linguaggio audiovisivo probabilmente più adatto alla storia che vuol essere raccontata.

Quindi, in attesa di poter guardare tutta la nuova serie su Harry Potter con Iris, il vero target dell’operazione, vi consiglio di recuperare assolutamente “Perfetti Sconosciuti” a teatro (questa settimana è a Roma all’Ambra Jovinelli).