Macchè bamboccioni: Fate largo alla GENERATION BRAND !!!
di Black Hook aka Quartermaster14 Febbraio 2012
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Generation BrandC’era una volta la gioventu’ bruciata, la gioventu’ ribelle, la gioventu’ alternativa… Se c’e’ un filo comune che ha legato assieme, dal dopoguerra in poi, tutte le successive culture delle nuove generazioni — dai beatnik agli hippie, dai precursuri dell’hip hop ai punk, fino agli slacker — era proprio la voglia di proporsi in modo assolutamente antagonista rispetto al “sistema” dominante, alla societa’ degli adulti, ai valori dei genitori, che venivano rigettati come qualcosa di totalmente marcio ed obsoleto.
Ma oggi? E’ subito ovvio che le cose sono cambiate. Che quel vecchio paradigma non e’ piu’ applicabile. Che l’identita’, la cultura, il linguaggio, i valori, i sogni di chi ha 35, 30, 25 anni o anche meno, viaggiano su binari radicalmente diversi dal passato.
Molti sociologi, giornalisti, politici e altri pseudo esperti hanno provato a sintetizzare cosa rende diversi gli under 30 odierni dalle generazioni che li hanno preceduti. E gli hanno appiccicato addosso una marea di etichette diverse. C’e’ chi ha parlato di “Generation Y”, un termine che in realta’ non dice proprio un bel nulla, visto che sfrutta semplicemente la progressione dell’alfabeto per indicare i ragazzi nati dopo la cosidetta “Generation X” (quella che a sua volta aveva visto la luce fra il 1960 e il 1980 — piu’ o meno, si intende — ovvero dopo i mitici “Babyboomers”). C’e’ chi ha sfoderato la parola “Millennials”, un altro termine assolutamente evanescente, visto che si limita a definire un segmento demografico che si e’ affacciato sul mercato del lavoro dopo, appunto, l’arrivo del nuovo millennio.
Piu’ di recente e’ diventato di moda parlare di “Neets”, dall’acronimo inglese “not in education, employment or training”, una sigla che mentre descrive bene quella condizione di disoccupazione perenne o di precariato cronico, con cui tanti ragazzi oggi devono fare i conti alla fine della scuola, e’ decisamente riduttivo se si predende di usarlo per raccontare l’esperienza di un’intera generazione. E infine abbiamo l’italianissino “Bamboccioni”, tanto superficiale, idiota ed offensivo che non mi pare il caso di sprecarci sopra altre parole.
Beh, cari espertoni, avete mai provato a sentire i diretti interessati? Avete mai incontrato un ragazzo o una ragazza fieri di autodefinirsi yers, millennials, neets, bamboccioni? Cosi’ come poteva fare un beatnik, un hippie, un punk, o persino uno svaccatissimo slacker? Ovvio che no!
Ragionando con il team di Goldworld.it su cosa definisce invece la generazione a cui questo nostro progetto vorrebbe riuscire a dare voce, ci e’ capitato per le mani un piccolo saggio di un critico culturale americano, William Deresiewicz, un personaggio abbastanza curioso, che insegna letteratura (e’ l’autore fra l’altro di un libro su Jane Austen) ma scrive anche per The Nation, una rivista che negli Stati Uniti occupa uno spazio simile a quello de Il Manifesto qui in Italia (semplificando parecchio…).
Ebbene, un’osservazione di Deresiewicz che c’e’ piaciuta e’ che, rispetto appunto alle ondate giovanili che li hanno preceduti, gli under 30 di oggi spiazzano spesso gli adulti presentandosi come persone fondamentalmente gentili, educate, informate, istruite, sincere, amichevoli, addirittura moderate. Certo, stiamo generalizzando, e ci sono delle eccezioni — i fanatici del Black Bloc, i circoli degli Ultras, i Punk a bestia — ma sono minoranze pittoresche, e magari un po’ penose, con un’influenza assolutamente marginale sui loro coetanei.
Dietro a questo modo diverso di confrontarsi con la realta’ — all’apparenza cosi’ poco antagonista, ribelle o nichilista — ci sono delle ottime ragioni, a comiciare dal fatto che se sei un ragazzo oggi non puoi contare assolutamente su nessuno per trovare la tua strada. Sicuramente non puoi contare su un’azienda, che ti offra una prospettiva di carriera, visto che per i datori di lavoro i giovani sono ormai solo manovalanza a basso costo, condannata ad un destino di eterno precariato. Non puoi contare su un partito, un’ideologia, un gruppo politico, perche’ abbiamo imparato che il potere corrompe anche i meglio intenzionati, che alla fin fine sembrano piu’ preoccupati delle loro poltrone (o dei loro cinque minuti in televisione) che del bene comune. E non puoi davvero contare su una religione, una setta, un guru che ti promette il Nirvana, perche’ al giorno d’oggi questa roba ci fa’ solo sbellicare dalle risate.
Intendiamoci, tutto questo non vuol dire che i ragazzi sono diventati all’improvviso dei chierichetti senza peccati trasgressivi. Ma se oggi ti fai dei cannoni grandi come siluri, non nutri certo nessuna illusione che se il mondo fosse pieno di sballati, e tutti vivessero in una comune, mangiando miglio organico e trombandosi chi gli pare, l’amore trionferebbe su ogni male. E se ti piace la musica punk, e magari pure strillare tutto incazzato una rabbia bestiale, non sei cosi’ idiota da pensare che ci sia qualcosa di eroico a farsi di eroina fino a diventare un mentecatto tossicodipendente che schiatta di overdose.
Quello che oggi invece abbonda fra le nuove generazioni e’ un tsunami di talento creativo. I ribelli di una volta, per quando alternativi pensassero di essere, erano piu’ spesso che mai dei meri consumatori. La rivoluzione digitale ha invece messo in mano a tutti, e in primo luogo ai giovanissimi che nel mondo analogico non hanno mai vissuto, gli strumenti per trasformarsi in autori. E’ vero che sui social network si perde una marea di tempo a condividere cazzate. Ma e’ ancora piu’ vero che Facebook, Twitter, Flickr, YouTube sono diventati le vetrine per presentare al mondo le nostre passioni e il nostro estro creativo.
Ecco, se proprio vogliamo dare un nome alla generazione senza nome, o se preferisci a quella con nomi che non dicono nulla, a noi ci piace GENERATION BRAND.
Una volta un logo, un marchio, un’immagine pubblicitaria era qualcosa di riservato alle corporation. A partire dall’hip hop e dai graffiti propagandare il proprio nome e’ invece diventato qualcosa di perfettamente normale. Dopotutto, se oggi vuoi essere un musicista, puoi forse sperare che un agente discografico ti venga a scoprire e ti proponga un bel contratto milionario? Certo che no! Qualsiasi band che non vive sulla luna ha imparato da un pezzo che la fama, il successo, o anche semplicemente l’opportunita’ di campare facendo quello che gli piace fare, se la deve costruire da sola, autoproducendo, autopromuovendo, autodistribuendo la sua musica. E lo stesso vale per qualsiasi altra professione o ambito creativo.
Come di nuovo ha notato William Deresiewicz, gli idoli delle generazioni giovanili del passato erano spesso dei martiri politici (Che Guevara, Malcolm X, Martin Luther King) o degli artisti maledetti (Jim Morrison, Johnny Rotten, Tupac Shakur, Kurt Cobain). E oggi? Beh, abbiamo visto tutti l’incredibile ondata di dolore emotivo scatenata l’anno scorso dalla morte di Steve Jobs. Che per quanto geniale potesse essere, era pur sempre un businessman. Potete immaginare un beatnik, un hippie, un punk, uno slacker che si commuove per la morte di un imprenditore? Mark Zuckemberg non sta’ proprio simpaticissimo a tutti. Ma quale ragazzo oggi non nutre una certa ammirazione per il ventisettenne che ha fondato Facebook? O per quei due compagni d’universita’ che hanno creato Google? E non tanto perche’ questa gente ha fatto una marea di soldi (cosa che di questi tempi non farebbero schifo a nessuno) ma perche’ con la loro inventiva hanno cambiato il mondo in cui viviamo, creando nel frattempo delle aziende dove e’ bello lavorare.
Ecco, con il team di Goldworld.it, dopo aver ragionato un po’ su questi filoni, siamo voluti andare oltre le teorie (che alla lunga lasciano il tempo che trovano) e abbiamo messo assieme un eclettico minestrone di storie. Oltre che in Italia, siamo andati a sbirciare negli Stati Uniti, in Giappone, in Inghilterra, in Germania. C’e’ ovviamente la testimonianza di Omar Rashid, fondatore del marchio Gold e di questo sito. C’e’ un “dottore” in statistica ventisettenne, che e’ tornato dagli Stati Uniti a Milano, con l’intento di creare startup internet capaci di mandare in fallimento quelle vecchie aziende che non gli daranno mai un lavoro. C’e’ l’avventura dell’inventore di FLxER, un free software per fare live video mixing attorna al quale e’ riuscito ad aggregare la piu’ vasta community di vj del mondo. C’e’ un reportage sulle mille tribu’ degli under 30 in Giappone.
Con articoli che compongono questa piccola inchiesta non abbiamo alcuna intenzione di propinarvi la favola che tutto sia rose e fiori. Il nostro mitico Cece ci ha offerto un bellissimo rant sulla frustrazione del precariato perenne. Un venticinquenne romano che ha cominciato a girare il mondo a 16 anni, ci ha raccontato perche’ l’invadenza della vecchia politica in Italia lo nausea. Il punto e’ pero’ che anche quando si tratta di cambiare il mondo la Generation Brand ha imparato ha declinare la sua rabbia in modo molto piu’ efficace che dando fuoco a tutto a colpi di bottiglie molotov. Ecco allora l’esperienza di Occupy Wall Street, con la storia segreta di un manipolo di pubblicitari pentiti che inventando uno slogan virale ha fatto tremare l’America. O quella dei ragazzi del Partito Pirata tedesco, che a colpi di sofware stanno reinventando le basi della democrazia con il Liquid Feedback.
C’e’ altro da dire? La risposta e’ categorica: absolutely yes! Non abbiamo nessuna pretesa di parlare a nome di tutti, perche’ la Generation Brand e’ troppo poliedrica e multiforme per essere condensata in una piccola collezione di articoli. Vorremmo sentire anche la tua storia. Vorremmo magari sapere che per te abbiamo sparato solo cazzate. Ma intanto una cosa la possiamo affermare forte e chiara. Bamboccioni? No, grazie. Chi parla in quel modo non ha capito un tubo nulla. E quasi, quasi ci dispiace per lui…
Le foto che illustrano questo articolo sono di Marco Montanari