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Una questione etica | Riflessioni sulla comunicazione e la pubblicità pt. 1 



L’etica nella comunicazione e nella pubblicità è un tema sempre più rilevante, specialmente nell’era digitale, in cui i messaggi promozionali raggiungono un vasto pubblico in tempi rapidissimmi. Il modo in cui le aziende comunicano e promuovono i propri prodotti può influenzare profondamente il comportamento dei consumatori e il modo in cui percepiscono i brand. 

La pubblicità ha quindi il dovere di non essere ingannevole, di rendere esplicito l’aspetto commerciale della comunicazione e di rispettare la persona, intesa come soggetto della comunicazione e come destinatario.

A tal proposito esiste l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria italiano (IAP), uno dei primi al mondo ad emanare un codice unitario, che varia con i cambiamenti sociali e culturali dei momenti storici.

Secondo l’articolo 2, il pubblicitario deve evitare di costituire oggetto di inganno o errore, anche per mezzo di ambiguità o esagerazioni. Non sono lecite le pubblicità che attuano esagerazioni verosimili, ovvero tali da lasciare dubbi di interpretazione al consumatore. Al contrario se l’esagerazione è particolarmente eccessiva allora la campagna che usa tale iperbole è lecita.

Voltaren gioca su questa iperbole visibilmente eccessiva: Il mal di schiena può essere così forte che anche una semplice scarpa slacciata sembrerà lontana e irraggiungibile

Tuttavia in ambito pubblicitario, è difficile stabilire il confine tra ciò che è etico e ciò che non lo è, per via dell’attitudine persuasiva e della pratica di arricchire di significati.

A tal riguardo uno dei due filoni di pensiero afferma che la pubblicità sia legata indissolubilmente alla promozione delle merci e che quindi il suo compito sia seduttivo e non informativo. L’obiettivo è quello di mostrare i benefici indiretti derivanti dall’acquisto di un prodotto o servizio.

Un’altra scuola invece vede nella pubblicità l’aspetto pedagogico ed educativo; un dialogo con il consumatore il cui interesse è quello di migliorargli la vita e guidarlo nelle sue scelte quotidiane.

Entrambi i modelli però si avvicinano sempre più a quello intermedio della pubblicità sociale, in cui valori e interessi guidano verso una responsabilizzazione dell’individuo. Quanto sia onesta tale operazione è oggetto di discussione, sopratutto perché tutte e tre le forme hanno un effetto persuasivo e mirano a far compiere un’azione al destinatario.

Poi c’è un altro aspetto. Negli anni la Unique Selling Proposition (USP), che è uno dei pilastri della comunicazione, ha lasciato sempre più il posto alla Value Proposition o alla Unique Telling Proposition. Per farla breve, se prima era più facile trovare una caratteristica concreta di un prodotto che portasse a un vantaggio competitivo, con la crescente offerta di beni equiparabili questo è venuto meno. Esiste già (quasi) tutto, per cui si è passati a creare un’unica e caratterizzante argomentazione di racconto che ruota intorno a valori profondi. Sono i valori, sono i significati costruiti ad arte, a differenziare i brand. 

Ecco che qui si è creato un ulteriore oggetto di pericolo.

Il cioccolato che si scioglie in bocca, non in mano – Il claim basato su una USP che ha sancito il successo di M&M’s

I brand ormai propongono stili di vita, un’estetica e addirittura un’etica e una visione del mondo. L’obiettivo non è più quello di creare un mondo in cui far identificare i consumatori rappresentato nella sua concretezza materiale fatta di oggetti e beni di consumo ma di creare piuttosto un mindset, fatto di valori a cui aderire. 

È chiaro che il coinvolgimento che si va a creare sia più forte. Conseguentemente però, il brand ha in mano un’arma a doppio taglio che potrebbe usare positivamente, come anche no.