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Nica Libre: Cooperazione, turismo e globalizzazione



Un sole micidiale, un villaggio enorme, un inquinamento acustico a base di clacson da farti vivere in piena tensione ogni attimo su un automezzo… Questa la prima impressione di Managua, capitale di uno dei più controversi stati centroamericani: il Nicaragua.

Mi trovo da pochi giorni in terra extranjera, ma sembra passata già una vita. Il volo lungo e macchinoso, l’ingresso in una realtà totalmente differente, hanno portato le mie capacità di percezione ad alterare significativamente i tempi reali. Paul Theroux, nel suo celebre libro L’ultimo treno della Patagonia, tra le tante interessanti osservazioni – e i brontolii che non si fa mai mancare – ha inserito una riflessione assolutamente veritiera: l’aereo, al contrario di treni, bus, navi, o altri mezzi di trasporto “a vista”, non permette di percepire la transizione del viaggio. E’ come se si passasse in un portale di teletrasporto. Il viaggio è incredibilmente rapido. E ci si ritrova in maniera quasi istantanea dalla nebbia milanese al vulcanico Nicaragua, senza soluzione di continuità, con il solo intermezzo del volo, il cui unico panorama è un cielo azzurro sempre uguale.

E così, eccomi all’aeroporto internazionale Augusto Sandino. Beh, più che un aeroporto internazionale sembra una stazione degli autobus, il cui calore è enfatizzato dal solleone pomeridiano e dal contrasto con l’inverno europeo. Davanti a me ho un anno in terra Nica, in cui lavorerò presso una ONG attiva nell’accoglienza e nell’educazione di bambini orfani e di strada. Il Nicaragua è il secondo paese più povero delle Americhe, dopo Haiti, e lo scarso grado di sviluppo mi risulta evidente quando passiamo con il nostro pickup dall’aeroporto al centro di Managua (ancora in precarie condizioni strutturali a seguito del devastante terremoto del 1972), e poi fino al distretto rurale dove vivrò per il prossimo anno.

La mia residenza sarà un villaggio dotato di alloggi, scuola, uffici e clinica medica, distante circa un paio di ore di bus dalla più vicina cittadina, e quindi forzatamente indipendente dal mondo esterno. Le condizioni igieniche e lo standard di vita della mia nuova casa sono decisamente precari rispetto alla mia vita precedente. Ma non è poi così difficile abituarsi alla comida caratterizzata dall’onnipresenza di riso e fagioli, alle frequenti visite dei non tanto simpatici aracnidi locali, o alla doccia gelida nelle fresche e ventilate mattine tropicali.

Nella possibilità di vivere allo stesso modo dei locali io non vedo un dolente sacrificio, ma l’occasione per non essere considerato un privilegiato occidentale, in cerca solo di nuove, più viscerali esperienze di vita. La ricompensa più grande sarà poter lavorare alla pari con i giovani residenti del villaggio. E il panorama agreste che mi godo quando suona la sveglia alle 5.30 del mattino, pur non essendo niente di particolarmente esotico, è in grado di farmi apprezzare la semplicità di una vita ormai molto lontana per chi – come me – è sempre stato abituato a una caotica esistenza urbana.

Lavorare in ambito ONG è stato per me lo sbocco naturale dei miei interessi e dei miei studi. Ma nonostante ciò, forse in relazione al mio forte razionalismo, non mi piace descrivere il settore della cooperazione in maniera eccessivamente sentimentale e moralistica. E’ un lavoro, punto e a capo. E’ fatto di sudore, risultati, necessità di denaro, e anche momenti di noia.

Certo, ogni giorno ci si confronta con il dilemma tipico di chi lavora in questo settore, e cioè con i dubbi sulla sua reale utilità. Nel corso degli anni sono fiorite molte discussioni sull’efficacia di questi interventi, su quanto il lavoro delle ONG straniere possa addirittura inibire lo sviluppo locale, portando danni clamorosi se concretizzato in modo non corretto. Il puro assistenzialismo, o il mero versamento di fondi, ha provocato vere e proprie distorsioni nel percorso di progresso di certi popoli, non mettendoli in grado di migliorare il proprio status, o peggio ancora rendendoli dipendenti dagli aiuti stranieri.

Assolutamente fondamentale diventa quindi smarcarsi dall’idealismo o dal romanticismo puro, per focalizzarsi invece sui risultati e sul coinvolgimento dei locali, al fine di dare un futuro concreto al lavoro fatto. A mio modo di vedere la cooperazione è insomma un settore come tutti gli altri, caratterizzato da realtà eccellenti e da altre totalmente incompetenti e nocive. Nel mio caso specifico credo che avere come superiori solo persone locali, tra l’altro molto competenti, sia già un buon segnale. E che scoprire come i ragazzi usciti da questa struttura siano diventati promettenti studenti universitari o professionisti nel loro settore, senza più diretta copertura dell’organizzazione, sia di ottimo auspicio.

Tornando al Nicaragua, un appassionato di storia e politica centroamericana, che si ricorda gli avvenimenti degli scorsi decenni, come la rivoluzione Sandinista o lo scandalo Iran-Contras, rimane veramente allibito vedendo cosa è davvero questo “temibile” paese. L’immagine che ci è stata comunicata è infatti quella di un paese povero, pericoloso e afflitto dalle più diverse calamità naturali. Ma quando si passeggia per la “minacciosa” Managua ci si rende conto fino a che punto la paranoia regnante negli anni ’80 abbia distorto la nostra percezione.

La città, oltre ad aver ben poche attrattive turistiche, se comparata alla confusione e alle dimensioni di altre capitali sudamericane, appare al massimo come una cittadina di provincia che ha subito una cura di ormoni di dubbia provenienza. L’idea che questo paese possa aver rappresentato una minaccia per gli equilibri geopolitici mondiali appare assurda, sopratutto quando si ha l’occasione di parlare con i locali, tutti assolutamente privi di rancori verso le tragedie del passato, dediti solamente al proprio sostentamento e al tentativo di sfuggire ad una povertà diffusa.

Se l’interesse verso Reagan, Bush o Obama è davvero scarso, c’è invece un formidabile desiderio di relazionarsi con il resto del mondo a livello “micro”, conoscendo persone di altri paesi e utilizzando estensivamente i social network, primo fra tutti Facebook, diffuso anche tra le fasce più giovani d’età.

Insomma il Nicaragua si rispecchia efficacemente nei suoi migliori slogan, come una terra di laghi e di vulcani, di poeti e di contadini. È semplice e schietto, proprio come la sua gente. Oltretutto, per me che prima di arrivare qua ho soggiornato a lungo in Asia, è stato particolarmente piacevole trovarmi catapultato in un mondo in cui la comunicazione con gli orgogliosi nicaraguensi è veramente diretta, puramente latina, senza la necessità di usare tutti quei mezzi termini, codici linguistici e sociali, che invece sono comuni nelle conversazioni con molti popoli dell’oriente.

Con una storia travagliata, e una brand image distorta, il Nicaragua è rimasto finora ai margini del circuito del turismo internazionale, soprattutto se comparato al non lontano (e in realtà ben più pericoloso) Messico. Ma le garanzie di una sicurezza maggiore, le straordinarie bellezze naturali (Isla Ometepe o le Corn Islands sono realmente sensazionali) e una cultura incredibilmente ricca e diversificata stanno già cambiando le cose. Per ora è massiccia la presenza di un turismo budget, fatto di backpackers che trovano allettante la prospettiva di visitare un paese così comodo e sicuro, oltre che ovviamente molto economico. Ma è probabilmente solo questione di tempo prima che l’invasione dei tour all inclusive li segua a ruota.

Tutto questo mi lascia un po’ ambivalente. Dall’uscita del celebre libro-manifesto No Logo di Naomi Klein, e dai tempi del “popolo di Seattle”, ci sentiamo ripetere infatti, con cadenza quasi quotidiana, quanto la globalizzazione stia influenzando il mondo, alterando culture, tradizioni, luoghi ed equilibri locali. Ma un aspetto di questo fenomeno che viene spesso sottovalutato, a beneficio di disquisizioni più politiche e spesso populistiche, è proprio quello legato al viaggio. Nel giro di pochi decenni il turismo è diventato uno dei maggiori business a livello mondiale, muovendo cifre di denaro enormi e quantità di persone inimmaginabili, in veri e propri esodi di massa temporanei.

Ecco, ai miei occhi, questo enorme trasferimento di masse umane in cerca di svago si porta appresso il rischio di erodere proprio quelle culture e tradizioni locali che ci spingono a voler viaggiare. Ovviamente non voglio apparire come un ipocrita, che desidera tenere per sé tutto il meglio di paese come il Nicaragua, senza relazionarsi agli importantissimi benefici economici che l’industria turistica può portare all’economia di uno stato (noi italiani ne sappiamo qualcosa…). Quello che sarebbe bello vedere nei prossimi anni è lo sviluppo di un modello di turismo diverso, capace di raggiungere un punto d’incontro tra convenienza economica, sviluppo dell’ospitalità locale e rispetto per le tradizioni.

Essendo una persona profondamente concreta, che guarda con diffidenza a tutti i tipi di idealismo astratto, credo anche fermamente che il cambiamento debba nascere prima di tutto in noi stessi. Dobbiamo insomma imparare a renderci conto che viaggiando possiamo essere, con il nostro comportamento, la causa di certi problemi che poi deprechiamo.

Andare in Cina o in Thailandia ad assaggiare cibi derivati da specie in via d’estinzione non ci rende migliori di quei pescatori di balene giapponesi a cui facciamo mancare il nostro rispetto. Partecipare ad un rito tradizionale profondamente spirituale, solo per poter avere nel proprio portfolio di viaggio un evento sensazionale da raccontare agli amici, snatura la cultura del paese che ci ospita e non ci rende tanto diversi da certe multinazionali che non manchiamo di criticare (spesso giustamente). L’utilizzo smodato di aerei, anche se molto economici, non ci permette poi di puntare il dito contro certe industrie che agiscono con poco rispetto nei confronti dell’ambiente.

Con questo non voglio certo suggerire a tutti di starsene a casa. Al contrario, sono ben consapevole dei vantaggi economici e sociali che lo sviluppo dell’industria alberghiera potrebbe portare al Nicaragua. Ciò che spero è che il concetto di turismo sostenibile diventi la norma del settore. Portando così due grandi vantaggi. Offrire alle generazioni future la possibilità di vivere le medesime incredibili esperienze che noi abbiamo avuto modo di provare. Ed assicurare tutela e protezione alle culture e agli usi locali, oggi troppo spesso ridotti a mera merce di scambio economico impari.

“Tutti pensano a cambiare il mondo ma nessuno pensa a cambiare se stesso”, scrisse Tolstoj più di un secolo fa. Hunter Thompson disse invece che “The Crazy never die”. Ma dovrebbe essere chiaro che anche “The Wise never die”…