Dopo la tragica fine di Satnam Singh nei giorni scorsi, il lavoratore indiano che aveva perso un braccio morendo dissanguato, il titolare dell’azienda agricola ha detto che tale triste episodio è stato dettato da una leggerezza che “ci è costata cara a tutti”, compiuta dal bracciante stesso.
Ed è la metafora di quello che pensiamo degli stranieri.
Non ci interessano.
Lunedì 17 giugno il lavoratore indiano ha avuto un incidente nei campi dove lavorava, e stando alle ricostruzioni, dopo che Singh ha perso un braccio, i datori di lavoro non avrebbero chiamato i soccorsi.
Lo avrebbero semplicemente lasciato davanti casa, con il braccio amputato poggiato su una cassetta per la raccolta degli ortaggi.
Sembra la trama di un film horror, oppure una storia di Dylan Dog, e invece no: sono le campagne laziali nel 2024, non i campi di cotone degli Stati Uniti schiavisti di Via col vento.
Perché di questo parliamo, non solo stranieri, ma semplicemente schiavi.
Schiavi di cui non ce ne importa niente.
Renzo Lovato, il titolare dell’azienda (già indagato in passato per caporalato), padre del datore di lavoro che avrebbe portato a casa, invece che all’ospedale, l’agricoltore indiano con il suo braccio in una cesta (Stephen King non avrebbe potuto scrivere di meglio), ha detto infatti al Tg1: “Avevo avvisato il lavoratore di non avvicinarsi al mezzo, ma lui ha fatto di testa sua, è una leggerezza purtroppo. C’è dispiacere perché è morto un ragazzo sul lavoro e non dovrebbe mai succedere. Ma è una leggerezza costata cara a tutti“.
A tutti chi?
Alla sua azienda?
Ai familiari?
La moglie di Satnam aveva implorato di portare il marito all’ospedale.
Nulla, “il padrone” non ha voluto. Così lo ha chiamato: il padrone!
Perché questi, ripeto, sono: schiavi.
E a noi degli stranieri, degli schiavi, non ci importa niente. Non ci interessa di chi lavora nei campi, come di chi ci consegna il pacco di Amazon ordinato la sera prima.
Oppure del lavoratore pakistano che viene sfruttato, minacciato e picchiato dagli imprenditori cinesi delle confezioni di Prato. Oppure dei naufraghi di Cutro lo scorso anno o di quelli di pochi giorni fa.
Ma non solo, non ci interessano gli stranieri che vivono nelle nostre città o vendono oggetti sulle nostre spiagge.
Non ci interessano le loro storie, come vivono o come stanno.
Non ci interessa fargli contratti regolari; al “padrone” di Satnam non è mai interessato e, lo ha detto lui, per colpa sua, erano tutti nei guai.
Meno che mai ci interessa che abbiano permessi di soggiorno. Il sistema di gestione dei permessi lavorativi è ridicolo, con il “clickday”: ovvero chi prima arriva a cliccare, vince il permesso, senza nessun merito (questo governo è ossessionato dal merito, ma per gli stranieri non conta) o caratteristiche di paese di provenienza, storia o altro.
Persino gli imprenditori chiedono al governo di avere piú possibilità di assumere regolarmente uno straniero irregolare. Non solo perché rischia lui in primis, ma perché forse a lui qualcosa effettivamente interessa.
La “sinistra”, quando era al governo, non ha fatto niente per cambiare la legge sui permessi di lavoro per gli stranieri. Perché? Perché parlare di stranieri, occuparsi dei loro problemi, toglie voti.
L’italiano medio crede che quando si aumentano i diritti e le possibilità per qualcuno, in questo caso gli stranieri (ma vale lo stesso discorso per le donne o gli omosessuali), si tolgono a qualcun altro. Per questo la vita degli stranieri in Italia non ci interessa.
Fateci caso, nei telegiornali e nei media in generale, l’immigrazione è sempre un problema, mai un’opportunità. Leggete i commenti degli articoli di giornali degli immigrati che “ce l’hanno fatta”, che diventano chef o imprenditori, troverete parole d’odio.
Per questo i governi la affrontano come una cosa che va delocalizzata, spostata; come la polvere nascosta sotto al tappeto.
Spostata, a caro prezzo; in Albania per il governo di Giorgia Meloni o in Ruanda per la Gran Bretagna.
Come dire, visto? Li abbiamo spostati lì, così danno meno fastidio a noi.
Come polvere sotto il tappeto, dicevo.
Il prezzo dei braccianti delle zucchine sottocosto è la vita degli schiavi. Che non interessa al governo, al ministro dell’agricoltura che si vanta continuamente dei prodotti italiani e, in definitiva, a noi.