Dopo Speech Debelle e subito prima di Shabazz Palaces (prossima intervista su Goldworld), per segnare un altro step importante nella nostra mappatura del rap più innovativo arriva Ghostpoet, nome d’arte per Obaro Ojimiwe, uno cresciuto da qualche parte tra Londra, Coventry, Nigeria e Repubblica Dominicana che, con il suo album di debutto, “Peanut Butter Blues & Melancholy Jam” sulla Brownswood Records del sempre attento Gilles Peterson, si è conquistato un’infinita schiera di fan e apprezzamenti da parte della critica più attenta. Tra beat making ruvido, ritmiche eclettiche, linee melodiche vicine allo spoken word e afflato blues, il poeta fantasma ci parla di solitudini, ispirazioni, periferie, vita di strada e lotta quotidiana, notti alcoliche… inserendosi di diritto, con autorevolezza e intelligenza, in una solco tracciato da grandi maestri della musica nera come Gil Scott Heron, Mike Ladd, Saul Williams. Lo scenario musicale che lo circonda è fatto di echi dubstep e garage, di groove e di paesaggi elettronici, in una formula che combina al meglio la dimensione del concerto e il reading poetico. Avremo modo di saggiarlo dal vivo nel prossimo evento della rassegna “Crescendo”, curata da Musicus Concentus, questo giovedì 22 marzo alla Sala Vanni di Firenze.
“Round and round we go, when’s it gonna stop? I ain’t been paid and I ain’t got a lot. It’s us against whatever babe”
E’ poco più di un anno che hai firmato per la Brownswood Recordings e ti sei già guadagnato una nomination al Mercury Prize. Come è cominciata la tua carriera in musica?
Ho cominciato a fare musica due anni e mezzo fa, lavorando di giorno e producendo la sera. Attraverso la mia pagina Myspace le mie prime registrazioni sono finite alle orecchie di Gilles Peterson. Per il resto non so spiegarmi come tutto sia successo così in fretta. Credo che viviamo in un momento nel quale su una cosa ti piace è molto facile e veloce condividerla con gli altri e così deve essere successo con la mia musica. Il merito di un successo così veloce dipende da come i miei primi fan hanno fatto girare la voce attraverso i social network.
La leggenda dice che nella stessa notte hai perso il tuo lavoro come assistente in una compagnia di assicurazioni ed hai firmato il contratto discografico che ti ha lanciato verso il successo…
In realtà sono passati un paio di giorni da quando sono stato licenziato a quando ho firmato il contratto. Nonostante questo direi che tutto è andato molto velocemente. Quella quarantotto ore è stata un’emozione incredibile.
Avresti mai pensato che la tua musica, un giorno, avrebbe raggiunto un’audience così grande?
In realtà no. Ho cominciato a far musica per me stesso e per conoscere gente. Forse solo a livello inconscio cercavo qualcosa che potesse piacere a gente da ogni parte del mondo e mi sento fortunato che questo sia successo.
Quale è stato lo spunto di partenza attorno al quale avete costruito il tuo disco d’esordio?
Alla Brownswood avevano ascoltato alcune tracce e così mi hanno chiesto un demo con più materiale, oltre che un appuntamento a Londra (ai tempi vivevo a Coventry) con Gilles Peterson. L’incontro con lui è stato bello e informale: abbiamo parlato della mia musica, di cosa volevo fare, della mia ispirazione, delle liriche come del suono che avevo in mente per accompagnarle. Già in quel momento si è materializzata l’ipotesi di fare un disco intero. Neanche il tempo di materializzare se quello che mi stava capitando fosse reale o un sogno e ho cominciato a lavorare sodo… Il resto è storia (ride, ndr).
Qual è l’idea dietro il titolo dell’album? Quello del cibo pare un argomento ricorrente anche nei tuoi testi.
Volevo che il titolo dell’album fosse una sintesi delle emozioni provate al primo ascolto dopo la sua registrazione. L’associazione più immediata è stata quella con il cibo che mi piace davvero tanto, soprattutto quando non sto bene. Ora devo trovare qualche altra passione alimentare perché di quelle robe citate nel titolo ne ho mangiate davvero troppe.
Il tuo suono sta da qualche parte tra la confluenza dei generi black di oggi. L’hip hop è un riferimento evidente ma in filigrana si legge anche una decisa influenza blues e una seria fascinazione per le evoluzioni elettroniche del suono inglese. Con tanti artisti che si sforzano di sfuggire dalle categorizzazioni a te importa in che scaffale del negozio vengono messi i tuoi dischi?
In realtà mi importa che la gente ascolti la mia musica non che la compri in negozio e tantomeno mi importa sapere su che scaffale sta. Non penso alla mia musica in termini di generi. Tutti quelli che puoi nominare sono come tante parti di un unico insieme, un unico sound.
Nel tuo pezzo “Survive It” ascoltiamo una voce femminile accreditata con un nome italiano, Fabiana Palladino. Ci racconti chi è?
Fabiana è un personaggio interessante. Siamo amici da molti anni e credo la si possa definire una cantautrice neo folk. E’ la figlio del mitico bassista Pino Palladino che ha lavorato con gente come Erykah Badu e D’Angelo. Volevo fare un pezzo con lei da un sacco di tempo e quando mi si è prospettata l’idea dell’album lei è stata la prima persona alla quale ho pensato.
Come hai conosciuto gente come Mica Levi di Micachu, Dels, Kwes, Sampha e tutti gli altri artisti con i quali ti sei trovato a collaborare?
Tutta quella gente l’ho letteralmente trovata su Myspace cercando musica interessante. Ai tempi c’era poca gente su quel social network ed era facile mettersi in contatto e invitare altri artisti a collaborare. Oggi è già cambiato molto il modo di connettersi tra artisti ma la spontaneità delle collaborazioni resta una delle ragione principali per le quali faccio musica.
C’è in giro un remix del tuo singolo “Cash and Carry Me Home” firmato da Kano. Cosa pensi della diffusa pratica dei remix?
Mi piace molto l’idea che la gente possa non solo ascoltare quello che faccio ma anche interpretarlo alla sua maniera. Questo succede regolarmente con i remix ed anche a me piace farne per altri. E’ un modo per testare la tua immaginazione su un pezzo. E’ un privilegio che certi artisti vogliano remixarmi o essere remixati da me.
Ami spesso esibirti anche come dj. Quale è l’interesse principale nel proporti anche in questa veste?
E’ un modo, per me, di scoprire un sacco di nuova musica preparando i dj set. Un altro modo di concepire una live performance. Mi piace l’idea di far ballare la gente. Sto cercando di migliorare la mia tecnica di mixaggio e voglio farlo ancora più spesso in futuro.
Quale sarà la formazione con la quale ti presenterai dal vivo?
Con me ci saranno il mio batterista e il mio chitarrista e un sacco di roba elettronica, tanti gadget, persone e cose…
Su cosa ti metterai a lavorare appena finirete questo lunghissimo tour?
Sto scrivendo per il nuovo album, pensando nuovi progetti, collaborando con molta gente. Soprattutto cerco di essere più creativo che posso. Ho molti festival nei quali devo suonare, non vedo l’ora di venire in Italia per la prima volta… e poi ancora più musica.
P.S.1
A questo link potete ascoltare il mio podcast con la voce di Ghostpoet e un mix delle sue tracce migliori.
P.S.2
Giovedì 22 marzo io e il fido Davide “Deiv” Agazzi festeggiamo assieme il nostro compleanno. Ovviamente prima andiamo a sentirci Ghostpoet in Sala Vanni e poi andiamo a far festa con gli amici del ritmo Fonx e Pzzo e, very special guest, mr Dre Love..
Link evento su facebook:
LH: Deiv & Andrea Mi B-day Bash con Pzzo e Fonx – special guest: Dre Love