Anni passati in fretta. “Quando ero giovane io, qua eran tutti campi” lo dice un vecchio morfologicamente scontato mentre osserva una caotica metropoli. Le macchine sfrecciano a velocità inaudite, impensate per la logica di un tempo.
Poi, agli occhi di un normale cittadino trentenne, tutto è ovvio ed estremamente logico, meno logico è invece pensare che al posto del teatro tenda ci fosse un vigneto o qualcosa di simile e invece delle puttane tanti maiali. Poca differenza se ci si ferma al sostantivo, ma enorme se si guarda il complesso.
Quarant’anni per vedere la ruralità uccisa e trasformata in zona residenziale, son le logiche del progresso e in pochi si lamentano, soprattutto quelli che attualmente ci vivono.
Poco distante da lì c’è lo stadio, anziano quasi quanto l’interlocutore che mi racconta di agresti scorci, capolavoro architettonico per il tempo in questione, quando la polvere era la reazione naturale del passaggio di macchine sullo sterrato delle strade limitrofe. È ancora lì, cerniera tra generazioni, amarcord avanguardistico e un po’ nostalgico nella forma, arena di ricordi e sensazioni. Specchio magico della città. Al suo interno l’erba si è succeduta, ma è rimasto l’odore di beniamini vecchi e nuovi: da Hamrin a Antonioni, da Schwarz a Baggio, da Batistuta a Prandelli. Bocche sguaiate hanno condito i Lunedì mattina con esperti e volgari resoconti, hanno amato e odiato sconosciuti conosciuti, li hanno protetti e adottati come figli e di alcuni di loro son rimaste impresse le gesta, mitizzate e rafforzate dalla fantasia popolare. Oggi è il tempo poco sentimentale dei media e l’immediatezza indelebile delle immagini assassina la poesia di alcune storie, ma non c’è dubbio che il tempo cancellerà i ricordi e li sostituirà con la mitologia, rendendo ancora una volta dei semplici nomi, delle storie da raccontare davanti a chissà quale scorcio futuristico.
Inizia quindi la rubrica segni indelebili del calcio (fiorentino e non), come prima scelta, un po’ per Captatio benevolentiæ nei confronti del capo e un po’ perché se si tratta l’argomento “mitologia sportiva” non si può che partire da qui. O da Maradona, ma quest’ultimo era troppo attuale e ho preferito lasciarlo per dopo…
“Roberto Baggio (Caldogno, 18 febbraio 1967) è un ex calciatore italiano, di ruolo attaccante. Occupa la 16ª posizione (primo italiano) nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata da World Soccer. È stato inserito da Pelè nel FIFA 100, la lista dei 125 migliori calciatori viventi divulgata il 4 marzo 2004.
Attaccante o trequartista e fantasista in possesso di eccezionali doti tecniche ed amatissimo dal pubblico di tutto il mondo, è considerato uno dei più forti calciatori di tutti i tempi.
Pur non avendo mai vinto la classifica dei marcatori, è il quinto realizzatore di sempre del campionato di serie A con 205 gol, preceduto da Piola, Nordahl, Meazza e Altafini. In Nazionale conta 56 presenze e 27 gol, che lo collocano al quarto posto tra i realizzatori in maglia azzurra (a pari merito con Alessandro Del Piero, ma con una media/gol quasi doppia). In totale ha giocato 700 partite ufficiali segnando 318 gol.
È inoltre l’unico calciatore italiano ad aver segnato in tre diverse edizioni dei Campionati del mondo (1990, 1994 e 1998). Anche se vanta un ottimo palmarès non ha mai vinto la Coppa dei Campioni.
A livello individuale si è aggiudicato il Pallone d’oro 1993, anno in cui è stato eletto anche FIFA World Player da una giuria composta dai commissari tecnici e dai capitani delle Nazionali di tutti i continenti.” (fonte Wikipedia)
Per noi il mito nacque nel settembrino del 1986, il 21 per essere precisi. Quello stesso anno vennero alla luce tutta una serie di campioni, destinati nel futuro a vestire con dubbio carisma, policrome maglie calcistiche, sempre più leggere, sempre più futuristiche. Più a nord la passione per questo nome iniziò un po’ prima, tre anni prima per l’esattezza, la maglia in quel caso era quella del Vicenza e già in quel frangente il giovane Baggio, mostrò alcune delle sfaccettature del diamante che sarebbe diventato. Il primo goal in serie A arrivò però con la maglia Viola, contro il Napoli di Maradona (Finì 1-1 e il Napoli vinse lo scudetto) e la realizzazione avvenne su punizione, cosa che di lì a poco, lo avrebbe reso famoso. L’anno successivo, a soli vent’anni, Roberto Baggio iniziò il cammino che lo portò alla fama mondiale, era la seconda giornata e la Fiorentina tornava a casa da San Siro con in tasca i tre punti, finì due a zero e fu proprio lui ad aprire le danze. “Negli anni seguenti è protagonista di primo piano nel panorama calcistico italiano: i suoi numeri, la sua classe ed i tanti gol incantano, la Fiorentina naviga nelle zone medio-alte della classifica e raggiunge una finale di Coppa UEFA nel 1990, persa poi contro la Juventus. Alla fine dell’anno riceve il “Trofeo Bravo”, premio assegnato dalla rivista Guerin Sportivo al miglior giovane under 23 partecipante alle coppe europee, unico ma importante riconoscimento personale vinto con la Fiorentina. Nel 1988 è convocato per la prima volta in Nazionale, in occasione del match del 16 novembre contro l’Olanda, nella gara amichevole organizzata in ricorrenza del 90º anniversario dell’istituzione della FIGC. In azzurro segnerà complessivamente 27 gol in 56 partite. Rimane a Firenze fino al 1990, quando viene acquistato dalla Juventus per la cifra record, a quei tempi, di 18 miliardi di lire, dopo un’infinita giostra delle ipotesi durata tutta la stagione. La tifoseria viola, consapevole di perdere un giocatore ormai considerato da tutti un fuoriclasse assoluto, scende in piazza protestando contro la dirigenza ed il presidente Pontello. I disordini causeranno anche diversi feriti ed arriveranno fino a Coverciano, creando non pochi problemi al ritiro degli Azzurri in preparazione per i Mondiali. L’allora procuratore Antonio Caliendo ha in seguito narrato un fatto singolare in un articolo di giornale che è stato ripreso dal sito Firenze Viola: «Mi ricordo ancora la scena: quando Baggio passò dalla Fiorentina alla Juventus, in conferenza stampa, davanti ai giornalisti gli misero al collo la sciarpa bianconera e lui la gettò via. Fu un gesto imbarazzante. Io dissi che il ragazzo andava compreso: era come se avessero strappato un figlio alla madre. Ammetto che, quella volta, rimasi molto colpito anch’io.» Baggio resterà per sempre legato a Firenze e ai colori viola, suscitando non pochi malumori tra i suoi nuovi tifosi. Oltre all’episodio della sciarpa rimane celebre il rifiuto di calciare un rigore durante un Fiorentina-Juventus (1-0) dell’aprile 1991, andando poi a salutare i suoi ex tifosi raccogliendo una sciarpa viola che gli era stata lanciata dagli spalti, in un’atmosfera surreale di applausi e fischi.” (fonte Wikipedia)
Di questa parte eviterò di parlare, lascerò il compito alla ben più capace enciclopedia libera, aggiungerò soltanto che Roberto Baggio è stato l’unico calciatore che, nonostante indosse una maglia a strisce bianconere, è riuscito comunque a strappare un sorriso di soddisfazione anche al più critico dei tifosi viola.
1990-1995: Juventus
“Dopo i mondiali italiani, inizia la sua storia con la Juventus, che durerà cinque anni. Sono gli anni della consacrazione a livello mondiale, che lo vedono vincitore con i colori bianconeri di uno scudetto, una Coppa Italia ed una Coppa Uefa.
Viene premiato nel 1993 con il Pallone d’Oro e con il Premio “FIFA World Player”.
Il primo anno con la Juve di Gigi Maifredi non è però dei più felici e la stampa lo accusa di essere incostante e di non saper essere un leader per la squadra. A fine campionato la Juve resta fuori dalle posizioni UEFA.
L’anno successivo sulla panchina della Juve torna Trapattoni ed ai suoi ordini matura e prende per mano la squadra fino a diventarne capitano dalla stagione 92/93. Riesce così ad entrare nel cuore dei tifosi juventini a suon di gol e grandi giocate, nonostante quelli fossero anni avari di successi per la Vecchia Signora. In quel periodo infatti imperversa il Milan di Capello ma, nonostante questo, si toglie in Europa le soddisfazioni che non riesce a togliersi in campionato e nella stagione 1992/93 segna 21 gol in campionato e trascina la Juventus alla conquista della Coppa UEFA.
Memorabili le perle regalate ai tifosi bianconeri in semifinale contro il Paris Saint Germain ed in finale al Borussia Dortmund, battuto all’andata in Germania per 3-1 ed a Torino per 3-0. Tra semifinali e finali realizza 5 gol e la strepitosa annata gli vale il Pallone d’Oro ed il Premio FIFA World Player. L’anno successivo la Juventus insegue ancora il successo in Europa, visto il solito dominio del Milan in campionato, ma viene eliminata ai quarti di finale di Coppa UEFA dal Cagliari e chiude seconda in Campionato, nella stagione che precede i Mondiali americani.
1995-1998: lo scudetto con la Juventus, la crisi con il Milan e la stagione al Bologna
Dopo il mondiale americano la stagione sembra iniziare bene, con un buono stato di forma e diversi gol. Il 27 novembre 1994 nella partita Padova-Juventus (1-2), segna uno splendido gol ma poi si infortuna al ginocchio destro. La società decide di non farlo sottoporre ad una operazione e rientra in campo dopo quasi cinque mesi, segnando comunque gol decisivi per la conquista dello scudetto e della Coppa Italia. Il periodo di assenza dal terreno di gioco favorisce l’esplosione del giovane talento Alessandro Del Piero, sul quale la dirigenza bianconera sceglie di puntare, e viene ceduto al Milan (sebbene in un primo momento sembrasse destinato all’Inter) nell’estate del 1995, nonostante il parere contrario dei tifosi.
Con il Milan, allenato quell’anno da Fabio Capello, vince subito lo scudetto, il secondo consecutivo per lui ma, tuttavia, le discussioni sul suo vero ruolo (punta, mezzapunta, rifinitore…) e sulla compatibilità con Dejan Savićević si sprecano, nonostante mostri invece un’ottima intesa sia con il montenegrino che con George Weah.
Parte titolare in quasi tutte le partite ed assume anche il ruolo di primo rigorista della squadra, ma viene puntualmente sostituito dal tecnico di Pieris, che non lo ritiene in grado di giocare per tutti e 90 i minuti.
Non viene convocato da Sacchi per gli Europei del 1996, poi finiti in maniera infausta per la squadra italiana.
Nella stagione successiva sulla panchina del Milan arriva l’allenatore uruguagio Oscar Washington Tabarez, che subito dichiara di voler puntare su di lui e l’asso africano George Weah per l’attacco della squadra. Parte infatti titolare nelle prime partite stagionali, esordendo anche in UEFA Champions League nel match casalingo contro il Porto, ma la crisi di risultati della squadra lo rilega in panchina, venendo sostituito in campo dal compagno Marco Simone.
Tabarez viene infine esonerato ed al suo posto la società chiama l’ex tecnico Arrigo Sacchi, con il quale non è in buoni rapporti dopo il Mondiale americano e la situazione non cambia: oltre ad essere sostituito come rigorista da Demetrio Albertini viene anche relegato nel ruolo di riserva del francese Christophe Dugarry.
In rossonero non trova più spazio e, sebbene nelle rare occasioni in cui viene impiegato riesca a lasciare il segno. Tuttavia, il 30 aprile 1997 ritrova la convocazione in Nazionale segnando uno splendido gol nella partita giocata al San Paolo di Napoli contro la Polonia valida per le qualificazioni ai Mondiali 1998.
L’estate 1997 si presenta al raduno milanista con l’intenzione di restare ma il rientrante Fabio Capello non mostra alcuna fiducia in lui. La nuova gestione tecnica lo convince così ad abbandonare il Milan.
Avendo bisogno di giocare con continuità per guadagnarsi un posto fra i 22 che prenderanno parte ai Mondiali francesi, tagliato il celebre “codino” decide di ripartire con una nuova vita, dopo aver raggiunto un accordo di massima col Parma, vanificato all’ultimo momento dall’intercessione negativa dell’allenatore Carlo Ancelotti, sceglie Bologna. Sarà la stagione del record di marcature per lui, con ben 22 gol segnati in 30 partite, tanto da meritarsi la fiducia del nuovo ct della nazionale Cesare Maldini e la convocazione per i Mondiali del 1998.
Sebbene la parentesi bolognese rappresenti la sua rinascita calcistica, che lo vede autore di prestazioni e gol indimenticabili, tanto da far ricredere alcuni addetti ai lavori che lo avevano ampiamente criticato giudicandolo finito, anche in questa stagione si verificano alcune incomprensioni con l’allenatore di turno, Renzo Ulivieri, tanto che lascia il ritiro della squadra quando il tecnico gli comunica che non avrebbe giocato dall’inizio nella partita con la Juventus.
Nella sua biografia, pubblicata poco prima dei mondiali del 2002, accusa Ulivieri di essere invidioso della sua fama, in quanto la stampa attribuiva le vittorie del Bologna al suo talento, mettendo in ombra il lavoro dell’allenatore.” (fonte Wikipedia)
Da qui in poi seguirono Inter e Brescia e, se del primo caso non è necessario parlare, la seconda esperienza merita almeno un piccolo resoconto. Gli anni in questione furono quattro e, nonostante gli anni, gli infortuni e le voci che lo davano per finito, Roberto Baggio riuscì a lasciare il segno…ed anche quell’erba ebbe modo di toccare la gloria infinita di questo grande campione.
“Mancata la convocazione in nazionale, decide di ritornare in una squadra provinciale, trasferendosi al Brescia sotto la guida di Carlo Mazzone, di cui diviene il capitano. Rifiuta le offerte di grosse squadre come Arsenal e Real Madrid, ma l’intenzione di restare in Italia ha una motivazione ben specifica: partecipare ai Mondiali del 2002.
Durante la stagione 2000/01 smentisce ancora una volta coloro che lo davano per finito e conduce la sua squadra ad una insperata qualificazione alla Coppa Intertoto, nella quale i lombardi riescono a raggiungere la finale, poi persa contro il Paris Saint-Germain, nonostante un suo gol su rigore nella gara di ritorno che consente di pareggiare ma non di passare il turno. Durante la stagione, nel girone di ritorno, il 1º aprile 2001 in Juventus-Brescia segna uno dei gol più belli: Pirlo lo lancia con un preciso passaggio da centrocampo e lui salta Van der Sar con un delizioso stop a seguire per poi insaccare a porta vuota, fissando il punteggio sul definitivo 1-1, risultato che allontanerà la Juventus dal vertice della classifica, guidata fino alla fine dalla Roma.
Anche all’estero gli addetti ai lavori notano il suo rendimento straordinario e, nonostante non partecipi con il proprio club alle coppe europee e non venga più convocato in nazionale da anni, viene inserito fra i 50 pretendenti per il Pallone d’Oro 2001, giungendo venticinquesimo nella classifica finale, un risultato di rilievo per un giocatore privo della vetrina internazionale.
La stagione decisiva (2001/02) inizia nel migliore dei modi ed addirittura si ritrova capocannoniere con 8 gol dopo 9 giornate. Purtroppo la solita sfortuna interrompe il momento d’oro e, dopo una prima lesione al ginocchio avvenuta a causa di un contrasto duro con Antonio Marasco del Venezia in campionato, si fa male anche con il Parma in Coppa Italia. Stavolta la diagnosi è tremenda: rottura del legamento crociato anteriore e lesione del menisco interno del ginocchio sinistro. Viene operato in Francia e, con una grandissima determinazione, riesce a rientrare in campo a 76 giorni dal giorno dell’infortunio (un record per il tipo d’infortunio subito, non solo per il calcio, ma per tutti gli sport), a tre giornate dalla fine del campionato. Nella partita del rientro, in casa della Fiorentina, segna un gol dopo appena due minuti dal suo ingresso in campo, raddoppiando poco dopo, e le reti vengono accolte da calorosi applausi anche da parte della tifoseria Viola. Nella penultima di campionato riesce a salvare ancora una volta il Brescia dalla retrocessione con un gol decisivo contro il Bologna. La stagione si conclude con un bottino di undici gol segnati in dodici partite, ma tutto questo non basta per convincere commissario tecnico della Nazionale Giovanni Trapattoni a convocarlo, ritenendolo non completamente ristabilito dall’infortunio.
Nelle due stagioni successive continua a giocare nel Brescia e, soprattutto con i suoi gol, fa raggiungere alla squadra la qualificazione per l’Intertoto, ed il 14 marzo 2004, durante il match contro il Parma, mette a segno il suo duecentesimo goal in Serie A (a fine stagione raggiungerà quota 205), soglia raggiunta solo da quattro altri “mostri sacri” del campionato italiano: Silvio Piola, Gunnar Nordahl, Giuseppe Meazza e José Altafini.
Disputa l’ultima partita della sua lunga carriera a San Siro il 16 maggio 2004 in Milan-Brescia 4-2, ultima giornata della stagione 2003/04. Alla sua uscita, cinque minuti prima dalla fine dell’incontro, viene abbracciato da Paolo Maldini e tutto lo stadio si alza in piedi per tributargli un lungo applauso.
Al termine della stagione, il Brescia in suo onore ritira la maglia numero 10, da lui indossata per quattro stagioni. Per un pubblico di certo non abituato a grandi campioni come lui, l’avvento di Baggio e soprattutto le sue gesta in quei quattro anni rimangono ricordi indelebili, sia per quanto riguarda il campione in campo, sia la persona al di fuori dallo stadio.
L’autobiografia
Ha scritto un’autobiografia, pubblicata nel 2001 col titolo Una porta nel cielo, nella quale, oltre a raccontare i periodi difficili dopo i gravi infortuni e il suo rapporto con la fede buddhista, descrive ed approfondisce i suoi complicati rapporti con alcuni allenatori, spendendo parole di elogio per molti altri (Giovanni Trapattoni, Carlo Mazzone e Gigi Simoni).
In particolare vengono descritti i contrasti con Marcello Lippi durante la stagione 1999/00 all’Inter. Lippi, racconta, tenne nei suoi confronti un atteggiamento apertamente ostile ed ingiusto durante tutta la stagione, totalmente in contrasto con gli elogi e le promesse fatte ad inizio stagione. Celebre l’episodio, raccontato nel libro, in cui, durante una partitella al ritiro dell’Inter, fa un lancio smarcante di quaranta metri per Vieri, questi segna, si gira e applaude insieme a Panucci il suo bel lancio. Lippi urla: «Vieri, Panucci, ma che cazzo fate? Credete di essere a teatro? Non siamo qui per farci i complimenti a vicenda, tantomeno al sig. Baggio, siamo qui per lavorare!». Non è l’unica accusa rivolta apertamente a Lippi: nel corso del libro, Baggio accusa Lippi di avergli chiesto, in pratica, di “fare la spia” ossia riportare eventuali voci contro il mister viareggino, quando ad un certo punto della stagione il tecnico ebbe l’impressione che qualcuno remasse contro di lui nello spogliatoio. Dinnanzi al netto rifiuto da parte di Baggio, sarebbe nato l’atteggiamento ostile che poi si estrinsecò attraverso l’episodio del rimprovero a Panucci e Vieri ma anche tantissimi altri episodi che nel testo non sono stati resi noti. Durissima è la risposta da parte di Lippi che, senza mezzi termini, asserisce di non aver mai chiesto aiuto a Baggio “perchè è una persona di cui non ho stima e che non reputo importante dal punto di vista umano”, queste le testuali parole del tecnico viareggino. Che prosegue così la sua replica “Ci sono rimasto davvero male di fronte a simili cattiverie e falsità. Chi mi conosce sa che non è possibile. Ho avuto nelle mie squadre tanti giocatori di grande carisma e ho chiesto loro collaborazione per gestire il lavoro, proprio perché li stimo. Vi faccio solo alcuni nomi: Vialli, Ferrara, anche nel Napoli, Deschamps, Peruzzi, Blanc, Vieri. A Baggio non ho mai fatto richieste simili proprio perché la stima non c’era e non c’è tutt’ora. Non so quali scopi abbia voluto perseguire Baggio nel fare simili dichiarazioni so solo che in questi anni ha detto tante cose, ma limitandosi sempre a osservazioni sul piano tecnico. Non ho mai ribattuto, perché sono elementi di valutazione personali, soggettivi. Non so nemmeno, però, perché questo giocatore abbia avuto tanti problemi con tutti gli allenatori che ha avuto. Io mi sono scontrato talvolta con i miei giocatori, lo ammetto, a volte non siamo venuti alle mani, ma quasi. Però, ci siamo sempre detti le cose in faccia”. Dopo l’episodio, Lippi ha dato mandato ai suoi avvocati di avviare un’azione legale contro il giocatore, contro quelle che il tecnico ritiene “cattiverie e falsità“.(fonte Wikipedia)
Questo è Roberto Baggio, questa è la sua lunga storia. Mancano dei passaggi e magari ce ne sono altri dei quali avreste fatto volentieri a meno, ma credetemi se vi dico che il calcio, col suo essere materialista, contorto e viziato, nasconde storie e personaggi capaci di emozionare ancora a distanza di anni. Ci sono foto e video che lo testimoniano, ma certe emozioni, alcuni frammenti nella memoria, valgono mille volte tanto, e il piacere immenso di esserci stato, d’aver visto anche solo un secondo di quel ritmo fatto di pelle dura e tacchetti di plastica, rende la parola sport un pochino più poetica di quello che ci sforziamo di voler credere. È lui, è il Divin Codino, croce e delizia di un universo fatto non solo di soldi e belle donne.