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Non confondiamo il sintomo con la causa: la violenza non nasce nei festival
di Marianna Sorrini4 Agosto 2025
Foto in alto: Nico Royale, presidente dell’associazione Montagna di Suono, organizzatrice del Reno Splash Festival
Quello che è accaduto quest’anno durante il Reno Splash a Marzabotto (una presunta violenza sessuale ai danni di una ragazza partecipante al festival), ci riguarda tutte e tutti. Nessuno escluso.
È la dura dimostrazione che il trauma non si manifesta nel cuore del conflitto, ma quando la guerra sembra finita.
Nell’esatto momento in cui sentiamo la tregua, in cui fischia la pace e inizia la musica, allora abbassiamo le armi.
E la violenza esplode.
Ci sono luoghi, come questo festival, che non esistono solo per la musica. Sono luoghi costruiti dal basso con fatica, cura e immaginazione politica.



Luoghi in cui, anche per pochi giorni, si può provare a riscrivere il nostro stare insieme lontano dalle deformazioni di una società che ci rende prigionieri dei nostri ruoli e delle nostre maschere. Non avendo specchi, ci si riflette solo negli occhi degli altri.
Non è romanticismo, è fatica.
Sudore impregnato nell’architettura di uno spazio che, pur non eliminando la violenza, disattiva un suo presupposto fondamentale: l’isolamento.

Questo episodio non è la prova che il festival ha fallito, è semmai la dimostrazione che nessuno spazio può essere immune da ciò che la società produce ogni giorno, e che, come un’ombra, portiamo ovunque andiamo.
Un memento del fatto che la violenza è sistema, e come le blatte si avventura ovunque, anche dove si lotta per disinfestarla.
Un memento del mondo da cui veniamo e che ci abita in ogni luogo.
Ma troppo spesso confondiamo il sintomo con la causa, e questo accade soprattutto nei luoghi che provano a costruire alternative.



È un meccanismo noto: si colpevolizza chi prova, si scredita chi non si adegua.
Ma la violenza non può nascere in grembo a questi spazi. È assurdo pensarlo.
La violenza è figlia di un mondo che l’ha normalizzata, resa invisibile, taciuta o a convenienza spettacolarizzata.
È proprio la conferma che invece servono più spazi come questi, dove per qualche giorno i confini diventano sfumati, luoghi dove, con accenti diversi, si canta la stessa musica.
Dove i denti si lavano a fianco a chi non conosci.
Dove a tavola non c’è il posto riservato.



Luoghi di cura, relazione e di resistenza alla solitudine strutturale. Proprio lei, nutrimento per ogni forma di violenza.
Talvolta, l’unico modo per onorare una ferita è continuare a esserci, in tanti, con gli occhi aperti, la voce tremante e il coraggio di non voltarsi dall’altra parte.
La musica non copre la verità.
A volte, la amplifica.
Il rispetto è un atto situato, non uno standard protocollare.
Ci sono dolori che richiedono silenzio e altri che chiedono voce.
Ci sono gesti che si raccolgono nell’intimità e altri che esplodono nel fuoco, nella presenza, nella lotta condivisa. Non esiste una grammatica dell’empatia.
Eppure, qualcuno si sta già impegnando a imporla.
“Il rispetto avrebbe richiesto una sola cosa: il silenzio”.
ll Reno Splash, dopo quanto accaduto, ha scelto un’altra strada: quella della parola.
Quando si è appresa la notizia il presidente dell’associazione organizzatrice – Montagna di Suono – Nico Royale, è salito sul palco.
In una società in cui la violenza si manipola, chi sceglie di parlarne, subito, e con le parole giuste, sta combattendo.
Non è stata leggerezza, non è stata incoscienza. È stata posizione: il rispetto non si misura in decibel, ma in presenza.
Il Reno Splash non ha taciuto.
Anche il grido è rispetto. Anche la voce. Anche lo stare.
Abbiamo visto accendere i falò.
Abbiamo visto cortei con zaini a terra e caschi alzati.
Abbiamo visto tende piantate.
Abbiamo visto lavoratori salire sulle gru.
Abbiamo visto che non c’è solo un modo.
Minuti di silenzio e ore di lotta sono la stessa arma in mani diverse. E chi ha la musica, combatte con quella.
L’attacco di Morris Battistini (vedi video intorno a 1 h.17 min.) a cui i ragazzi del Reno Splash hanno controbattuto con un nuovo comunicato, non è solo meschino, è emblematico: trasforma un atto di responsabilità in una scusa per rilanciare stereotipi. Non cerca giustizia. Cerca consenso.
Il consigliere comunale ha trasformato un evento traumatico in un megafono di propaganda politica per un’operazione fin troppo chiara: cancellare la complessità dell’accaduto per ridurlo a una caricatura ideologica, e usare quella caricatura per rafforzare uno sguardo securitario, razzista, repressivo.
Ha evocato “la droga”, “la musica discutibile”, “lo straniero”, come se stesse leggendo un vecchio manuale del pregiudizio. Ha usato un fatto doloroso per rilanciare uno sguardo tossico sul mondo.
Ma questa non è politica. È calcolo.
Non è difesa delle vittime. È sciacallaggio.
Non bisogna mai confondere il sintomo con la causa.