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Hoodie & Denari: Wall Street rifiuta l’amicizia a Facebook!



Sono numeri che fanno impressione. In appena otto anni Facebook e’ riuscito ad attrarre piu’ di 900 milioni di utenti attivi, diventando la seconda destinazione piu’ popolare d’internet (la prima e’ ancora Google). Non solo: questa immensa moltitudine di persone ha integrato l’uso del social network nelle sue vite in modo cosi’ capillare che non esiste altro sito al mondo dove la gente passa piu’ tempo (la visita media dura ben 24 minuti), carica piu’ foto (oltre 300 milioni al giorno), esprime piu’ giudizi e preferenze (oltre 2 miliardi di likes e commenti al giorno), svela piu’ informazioni su amici, affetti e relazioni personali (la ragnatela dei “friends” sul sito include oltre 125 miliardi di connessioni).

Con queste cifre in testa non dovrebbe quindi stupire nessuno che quando la scorsa settimana Facebook si e’ messo a batter cassa, offrendo in vendita per la prima volta al pubblico un pacchetto di azioni pari a circa un sesto del suo capitale sociale, gli investitori si siamo fatti avanti a frotte con i soldi in mano. Secondo quanto fatto trapelare dalle banche d’investimento incaricate di organizzare la vendita, il numero delle richieste avrebbe superato di ben 25 volte il totale delle azioni disponibili.

Offerte al prezzo di 38 dollari l’una, quelle azioni hanno portato nelle casse di Facebook circa 16 miliardi di dollari in contanti, settando il valore dell’intera societa’ oltre la stratosferica soglia dei 100 miliardi, e trasformando all’istante in multi milionari un migliaio di dipendenti ed investitori delle prima ora (come termine di paragone si consideri che Facebook impiega poco piu’ di 3500 persone ed e’ quindi al momento la ditta con la piu’ alta percentuale di milionari a libro paga che sia mai esistita!).


Mark Zuckerberg suona la campanella per aprire le contrattazioni del Nasdaq.

Ok, benissimo, fantastico, incredibile, surreale… Ma poi e’ arrivato venerdi’ 18 maggio, il giorno in cui il titolo Facebok e’ stato quotato per la prima volta al Nasdaq di New York. Mark Zuckerberg, circondato da un bel drappello di amici e collaboratori, ha suonato la campanella che ogni giorno apre le contrattazioni della borsa, in collegamento virtuale dal quartier generale dell’azienda a Menlo Park in California. Quell’immagine e’ stata ripresa in diretta dai principali canali tv americani e sparata su uno dei mega schermi al centro di Times Square a New York.

Ma nonostante tutta la fanfara mediatica, il titolo si e’ a malapena sollevato dalla quotazione iniziale. A meta’ giornata aveva gia’ cominciato a cedere, con le offerte di vendita che superavano quelle di acquisto. E alla fine solo un massiccio intervento delle banche d’investimento, che si son messe a comprare a mam bassa, e’ riuscito a fermare la quotazione prima della chiusura delle contrattazioni a pochi centesimi di dollaro sopra al valore da cui era partita, evitando al social network una figuraccia clamorosa. Oggi, lunedi’, quelle stesse banche d’investimeno si sono tirate indietro e il titolo ha cominciato, inesorabilmente, ad affondare.

Da un punto di vista pratico, ovviamente, un paio di giorni di altalena sfortunata in borsa non vogliono dire un bel nulla. Facebook i suoi 16 miliardi di dollari li ha comunque gia’ incassati, e potra’ usarli come gli pare per continuare a crescere, finanziare la creazione di nuovi servizi, acquisire societa’ capaci di offrire altre novita’ per trattenere i suoi utenti ancora piu’ a lungo sul sito. Ma da un punto di vista psicologico lo spietato verdetto dei mercati e’ un bella batosta. Perche’ sembra confermare il sospetto che Facebook, nonostante i suoi numeri da record, agli occhi degli investitori sia piu’ un giochino, un passatempo, che una piattaforma davvero capace di rivoluzionare l’economia reale, come la vede il suo fondatore.


Mark Zuckerberg, con i dipendenti della sua ditta, nel cortile del quartier generale a Menlo Park in California.

Per spiegare questo divario, fra le aspettative di Mark Zuckerberg e dei suoi giovanissimi compagni d’avventura, e quelle degli gnomi del capitale, c’e’ chi ha scomodato il gap generazionale. Wall Street, abituata a ragionare secondo vecchi schemi economici e a vivere dentro una bolla dorata di privilegio (quanti tycoon della borsa hanno un profilo su Facebook che aggiornano di persona?), non riuscirebbe a comprendere il potenziale di un business che ha gia’ radicalmente trasformato il modo di relazionarsi fra centinaia di milioni di persone qualsiasi, a cominciare dalle generazioni piu’ giovani. E in questo senso e’ davvero significativo il bizzarro fracasso scatenato dal cosidetto “hoodiegate”.

Mark Zuckerberg, durante il “roadshow” che ha preceduto il lancio di Facebook in borsa, ovvero quella serie di incontri e conferenze private dove i vertici dell’azienda si presentano di fronte a platee di finanzieri per convincerli ad investire nel loro business, ha scelto di indossare come e’ sempre solito fare una felpa con cappuccio, uno “hoodie” appunto, senza alcun marchio particolare. Ebbene, diversi commentatori e analisti finanziari hanno criticato pubblicamente quella scelta, definendola un sintomo d’immaturita’, come se non indossare un completo gessato e una cravatta di Hermes (l’uniforme obbligatoria per chiunque lavori a Wall Street), prima di andare a chieder soldi ad un’audience di ricchi banchieri, fosse qualcosa d’insultante.

L’episodio e’ sfociato in farsa quando Betabrand, un marchio online di San Francisco specializzato in abbigliamento giovanile, ha colto la palla al volo, annunciando un modello di hoodie gessato, realizzato in un “finissimo tessuto di lana marino”. Rilanciata con un tweet da Randi Zuckerberg, la sorella di Mark, la notizia di quel capo e’ finite sulle pagine del Los Angeles Times e su una marea d’altri media (Betabrand ne ha esaurito tutte le scorte in poche ore), ribaltando in perfetto stile “web viral” i termini di cosa sia veramente ridicolo.

Mark Zuckerberg con la felpa che ha fatto scandalo fra molti finanzieri a Wall Street (in alto a destra); tre immagini dell'”Executive Pinstripe Hoodie” proposto da Betabrand.

Piu’ che di gap generazionale bisognerebbe allora forse parlare di gap culturale fra i valori che muovono i protagonisti della nuova economia (Silicon Valley, California) e quelli della vecchia finanza (Wall Street, New York). Fra i tycoon delle grandi istituzioni bancarie americane l’ostentazione della ricchezza e’ una priorita’ di vita. Fra i top nerd dell’economia digitale i soldi guadagnati sono solo un indicatore di quanto rivoluzionari e geniali sono i progetti che qualcumo ha inventato.

In altre parole: tutti sanno che Bill Gates e’ l’uomo piu’ ricco del mondo e che ci sono dozzine di altri ingegneri e inventori che possono divertirsi con “giocattoli” estremamente costosi (jet personali, biciclette ultra tech in carbonio e titanio che costano piu’ di un’automobile, salette multimediali meglio attrezzate di un cinema di prima visione nascoste nello scantinato di casa). Ma e’ altrettanto noto che alla vigilia dell’altra ricchissima quotazione in borsa, quella di Google, uno dei senior manager si presento’ ad una riunione del personale armato con una mazza da baseball, spiegando a tutti i giovani prossimi neomilionari che se all’indomani si fossero presentati al lavoro a bordo di una Ferrari o di una Lamborghini ci avrebbe pensato lui a rimodellargli la carrozzaria.

Il punto di contatto fra questi due universi alieni e’ pero’ la matematica. Ed e’ proprio guardando ai numeri che la storia del debutto di Facebook in borsa si fa interessante, non solo per comprendere perche’ Wall Street e Silicon Valley valutano quell’azienda in modo cosi’ diverso, ma anche per immaginare le ripercussioni che le dinamiche messe in moto da quella quotazione sul mercato avranno su tutti noi, gli utenti del sito.

Facebook ha incassato lo scorso anno quasi 4 miliardi di dollari, generati in stragrande maggioranza da annunci pubblicitari. Presa da sola quella cifra appare colossale, ma in realta’ vuol dire che Facebook ha incassato solo 5,11 dollari per ogni persona che lo ha usato, l’equivalente di tre o quattro caffe’! E non bisogna dimenticare che stiamo parlando appunto d’incasso, che e’ cosa ben diversa dal guadagno…

I profitti di Facebook, sempre nel 2011, sono stati stimati in circa un miliardo, una cifra che a sua volta vuol dire che l’attuale quotazione dell’azienda sarebbe pari a 100 volte quello che guadagna. Rovesciamo il rapporto fra quei due numerelli e il risultato e’ che se uno investe 100 dollari in Facebook puo’ contare oggi sulla certezza di un miserissimo ritorno di un solo dollaro all’anno (spicciolo piu’, spicciolo meno), che e’ molto meno di quello che anche in tempi sfigati come quelli odierni rende un qualsiasi Bot.

I pignoli osserveranno che calcoli elementari come questi non tengono conto del fatto che Facebook e’ un’azienda in rapida crescita. Vero. Ma e’ vero anche che e’ molto piu’ facile raddoppiare la base di utenti quando si comincia da un numero basso. Gia’ passare da 900 milioni ad un paio di miliardi sara’ una bella impresa (negli Stati Uniti e in diversi paesi europei Facebook ha gia’ raggiunto la saturazione e non cresce quasi piu’), e comunque il numero degli umani non e’ affatto infinito, e quello degli umani provvisti di computer o telefonino e’ ancora minore.


Un interno degli uffici di Facebook durante una maratona di programmazione.

La conclusione di tutta questa storia e’ quindi molto semplice: per giustificare una valutazione stratosferica come quella che Facebook a raggiunto con il lancio in borsa la scorsa settimana, il social network dovra’ trovare il modo di spremere molti piu’ soldi da ciascuno dei suoi utenti. Questo appare in diretta contraddizione con la visione che Mark Zuckerberg afferma di avere per il sito che ha creato. In una lettera aperta agli investitori, pubblicata immediatamente prima del debutto sul mercato, Mark ha infatti dichiarato: “Molto semplicemente, noi non costruiamo servizi per fare soldi, facciamo soldi per costruire servizi migliori.” A suo parere il vero obiettivo di Facebook e’ costruire un mondo piu’ interconnesso e piu’ trasparente, un mondo quindi dove non solo le relazioni personali, ma anche quelle fra i cittadini e le istituzioni, fra i consumatori e le aziende, saranno piu’ oneste e sincere, e quindi di gran lunga migliori.

Su quanto auspicabile sia una prospettiva del genere si potrebbe discutere all’infinito. La storia purtroppo ci ha insegnato che nella natura dei rapporti umani ci sono anche aspetti piu’ cattivi — intolleranza, pregiudizio, discriminazione — che mal si conciliano con l’utopia di una trasparenza totale (c’e’ una ragione, ad esempio, per cui nelle democrazie il voto politico e’ segreto e nelle dittature no). Ma anche rimanendo nell’ambito puramente commerciale, quello dove Facebook al momento raccoglie i suoi incassi, e’ ovvio che c’e’ una bella differenza fra come Mark Zuckerberg vede le cose, immaginando Facebook come una piattaforma che permettera’ ai suoi utenti di premiare le aziende che offrono i prodotti e servizi migliori, grazie all’intelligenza collettiva dispiegata da reti sempre piu’ vaste di amici, e come ragiona un tradizionale inserzionista pubblicitario.

Il business dell’advertisement vive oggi di curiosi eufemismi. E’ normalissimo ad esempio sentir parlare di “informazione commerciale”, come se uno spot fosse qualcosa di fondamentalmente neutrale, che ci comunica dati oggettivi, simili a quelli che possiamo trovare su un elenco del telefono (nessuno usa piu’ termini giurassici come “persuasione occulta”). Il segreto di Pulcinella e’ che l’obiettivo di qualsiasi campagna promozionale e’ vendere la merce del cliente che paga, buona o cattiva, utile o superflua che sia.

Leggendo quello che scrivono gli operatori del settore e’ molto interessante notare quanto loro vedano Facebook come una piattaforma intrigante ma anche incredibilmente frustrante. E’ infatti ben noto a tutti che Mark Zuckerberg ha scelto fin dalla nascita del sito di non inzepparne le pagine con quelle forme di pubblicita’ piu’ invadenti e irritanti (grandi banner multicolori, tendine in Flash che invadono tutto lo schermo, finestre popup) che avevano contribuito a far fuggire tanti utenti da concorrenti come MySpace. E’ invece meno risaputo che Facebook condivide al momento con i suoi inserzionisti poco o nulla di tutta quell’immensa mole di informazioni che ha accumulato sui comportamenti e sulle preferenze dei suoi utenti, preferendo vendergli pacchetti di servizi preconfezionati creati dall’azienda stessa.


Ufficio anagrafe per l’umanita’ digitale? Il centro di calcolo di Facebook, che contiene tutte le informazioni mai postate dagli utenti del sito, su cui i pubblicitari vorrebbero mettere le mani.

Per i pubblicitari, insomma, riuscire ad ottenere un accesso diretto a quei forzieri di dati personali, per poter generare annunci su misura piu’ convincenti e tracciarne l’efficacia anche fuori dai confini del sito, appare come la priorita’ assoluta. Facebook, al contrario, resta molto titubante all’idea di aprire i suoi database a terzi, non solo per timore di come l’utenza potrebbe reagire se cominciasse a sentirsi “spiata”, ma forse ancora di piu’ perche’ e’ cosciente che in questo modo rischierebbe di attirare l’attenzione delle autorita’ di tutela della privacy, e quindi dei politici, di molte nazioni.

Questo conflitto e’ clamorosamente esploso allo scoperto proprio pochi giorni prima del lancio di Facebook in borsa, quando la General Motors ha annunciato la cancellazione del suo budget pubblicitario sul sito, sostenendo che non era in grado di quantificare quanto effettivamente gli rendessero quegli annunci. Per quanto quel budget fosse relativamente modesto (10 milioni di dollari), e la General Motors abbia confermato che continuera’ ad aggiornare la sua pagina sul sito (che pero’, al contrario degli annunci, e’ gratis), la notizia ha fatto molto clamore nel settore, anche perche’ c’e’ chi ha subito notato che ormai piu’ della meta’ degli utenti si collega a Facebook con il telefonino, uno strumento dove le pubblicita’ digitali sono ancora meno cliccate ed efficaci, a causa delle limitazioni di banda e di dimensione degli schermi.

Mark Zuckerberg ha raccontato piu’ volte che quando si e’ inventato Facebook, scrivendo da solo il codice di programma della prima versione, non aveva in mente di creare un business ma un servizio di utilita’ sociale. Una delle sue mosse piu’ scaltre, quando quel progetto comincio’ a crescere in maniera esponenziale, richiedendo quindi l’ingresso di finanziatori, fu comunque quella di creare due classi diverse di azioni, una privilegiata con maggiori diritti di voto, e un’altra ordinaria da destinare appunto agli investitori. In questo modo, anche se lui oggi possiede solo una quota di minoranza del capitale sociale, mantiene il potere di controllare le decisioni del consiglio d’amministrazione, ed e’ quindi in grado di resistere alle pressioni di chi vorrebbe accellerare la commercializzazione del sito.

O almeno questa e’ la teoria. Solo il tempo potra’ dire se sara’ veramente possibile mantenere l’integrita’ di quella visione originale. O se invece la brama del capitale finira’ per stritolarla.

La battaglia fra il ragazzo con la felpa e i tycoon incravattati e’ appena cominciata.