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Stefano Benni, il lascito umano di un lupo psichedelico che mi ha cambiato la vita
di Filippo Bernardeschi15 Settembre 2025
Circa 15 anni fa ero in crisi perché non sapevo che strada intraprendere all’Università. Lo sono ancora, in crisi, un po’ meno (forse) ma non è questo il punto.
Non sapendo a che santo rivolgermi, provai a chiedere consiglio a qualcuno che avesse già realizzato i suoi sogni: scelsi Stefano Benni che era il mio idolo, grazie a mia madre prima, e alla mia professoressa del liceo poi, e scrissi una lettera un po’ nevrotica, piena di fermento e ricalcata sullo stile umoristico e tumultuoso dei suoi romanzi.
Speravo di colpirlo ma non ci credevo troppo. Invece lui rispose. Fu un’emozione enorme. Sapevo di che largo seguito godesse e l’idea di essere stato scelto fra le migliaia di suoi fans mi stese, letteralmente.
Benni fu molto serio in quella lettera, che ancora conservo (e non desidero pubblicare).
Mi disse, in sostanza, che se avessi optato per Lettere non sarei entrato nel mondo dei sogni perché “forse le facoltà manageriali sono anche più irrealiste e virtuali di quelle cosiddette umanistiche”, ma qualunque cosa avessi scelto, mi consigliava di perseguirla con passione.
Scrisse: passione non è solo calore, ma anche profondità, cioè voglia di andare a fondo. Ho cercato di applicare questo consiglio non solo alle scelte di vita, per quanto tribolate, ma anche ai rapporti umani.
Quella lettera, al di là dell’aiuto che può avermi fornito nel caso specifico, mi ha rassicurato sul fatto che esistono persone di successo che scelgono di fermarsi ad ascoltare chi le segue e pensano che il successo comporti delle responsabilità.
Benni era così. Ti metteva in gioco e si metteva in gioco. Amava giocare, ma non era un superficiale. Sapeva che giocare è una cosa seria e che essere seri è una cosa di cui – talvolta – si può ridere.
L’ho incontrato diverse volte. La prima fu alla Feltrinelli di Pisa. Arrivai con un’ora di anticipo e lo riconobbi dall’abbigliamento largo, elegante e consunto al contempo, oltre che dalla inconfondibile nube di zucchero filato sulla testa.
Gli chiesi di disegnare un gatto sul libro (Achille Piè Veloce) perché la mia insegnante mi aveva mostrato i suoi disegni, e lui immediatamente mi chiese se per caso avessi una tresca con lei, facendomi avvampare.


Nella foto qui sotto siamo a Lucca, nella sala Ademollo di Palazzo Ducale.
Gli chiesi che cosa lo legasse a T.S. Eliot, un poeta inglese eccezionale, di cui quasi nessuno parla, molto difficile, e del quale Benni ha registrato un audiolibro (La terra desolata) musicato da Umberto Petrin: la cosa mi colpì perché Eliot è un autore all’apparenza lontano da Benni, sia per stile che contenuti.

Benni si accese a quella domanda, parlò moltissimo e a fine incontro venne a cercarmi chiedendo lui stesso di scattare una foto assieme, fra “lettori”.
Ne vado fiero ma in realtà c’è poco di cui vantarsi. Era amore condiviso per un autore poco conosciuto, che richiede molto studio per essere apprezzato.
Molta voglia di andare a fondo, giusto?
E in molti abbiamo scandagliato a fondo l’opera di Stefano Benni. Per usare un termine caro a Alessandro Baricco, ne abbiamo fatto esperienza. Questo significa non limitarsi a un libro o due, ma abbracciare quante più letture possibile.
Da ciò deriva un campionario di immagini, di avventure, forse addirittura una certa visione del mondo.
Così abbiamo ben impresse nella mente il bonus vitale di Elianto, i cocktails leggendari di Baol (menedaunàl?) le luci metropolitane di Blues in Sedici, la bellezza scalcinata delle periferie in Comici spaventati guerrieri, il gioco sotto la pioggia con gli uccelli di Achille sulla sedia a rotelle Xanto, le scarpagnate di Saltatempo e un’infinità di altre rutilanti diapositive oniriche, attraverso cui abbiamo filtrato la cartina tornasole dei nostri sentimenti e la realtà che ci circonda, nutrendo l’amore per il diverso, per l’umile, il più debole, contaminando la mente con invenzioni linguistiche, giochi di parole, micro e macro poesie, e rinfocolando il disprezzo verso coloro che arraffano senza pietà, masticano senza gioia, approfittano senza condividere e ridono senza gioire.

Tutto questo noi l’abbiamo ricevuto, ridendo e condividendo e talvolta piangendo. Coordinate del cuore già presenti in noi, che la lettura di Benni ha irrobustito. È anche questo il lascito dello sforzo artistico del Lupo.
In questi giorni sento spesso associare a Benni il termine “immaginazione”, quasi fosse la chiave di volta dei suoi libri. Non credo ne sarebbe del tutto felice.
Anche se la sua era ai limiti della psichedelia (Benni rivendicava una letteratura ispirata ai cartoni animati e il suo amore per la scena del sogno allucinato di Dumbo è nota), l’immaginazione è la materia prima con cui si edificano tutte le opere letterarie.
In una circostanza disse di non amare il termine “scrittura creativa”. “Quale scrittura non è creativa?” chiese, e dal pubblico si levò una voce: “Bruno Vespa”. Risate. Il Lupo rimase serio. “No – ribatté – anche quella è scrittura creativa: genera mostri, ma li crea”.
Così il Lupo ti spiazzava. Non amava essere incasellato. In nessun modo.
Dolce e tenero e all’improvviso distante. Mi è successo. Nel corso di un incontro – affollatissimo come quasi ogni sua presentazione – osai alzare la mano subito dopo aver ricevuto una risposta. Benni mi fulminò: “Ah, un’altra?” chiese, facendo notare quanta gente fosse in fila.
E poi lo ricordo nella magica cornice del Teatro delle rocce di Gavorrano, dove si commosse nel leggere un passo di Blues in Sedici. Alzò gli occhi umidi verso il pubblico e dentro ci lessi una domanda: “La sentite anche voi, la compassione?”
Quella stessa sera, al nostro arrivo, io e mio padre lo avevamo trovato sul ciglio della strada, da solo, con le mani in tasca, che osservava le persone risalire il sentiero nel crepuscolo estivo. Con quel ciuffo bianco e le mani in tasca era mezzo poeta e mezzo lupo, a fiutare l’orizzonte carico di occhi e orecchie giunti fin lì per lui.
Eppure, non è questo il ricordo più bello che riesco a rievocare. Bensì il nostro primo incontro sulla carta.

Ero molto giovane, leggevo per la prima volta un suo libro – Baol – e mi spanciavo nel letto dalle risate. Non credevo possibile si potesse giocare con il linguaggio in quel modo. Mia sorella, nel letto a fianco, incuriosita volle ascoltarne un po’: glielo lessi e finimmo per ridere insieme di quelle assurde squisitezze letterarie.
È uno dei ricordi più felici della mia vita di lettore. E di essere umano.
Grazie Benni.
Per sempre grazie.