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Tra yard e barre: Coen racconta il suo nuovo disco “Metropolitano” e non risparmia critiche alla scena italiana
di Marco Giani21 Ottobre 2025
Dopo cinque anni, il rapper fiorentino torna con un album tra writing, polemiche, beats e rime.
Dalle strade di Firenze fino a Parma, dai palchi della scena hip hop italiana, Coen — all’anagrafe Jose Leonardo, classe ’95 — è un nome che ha saputo crescere con autenticità, passione e rispetto per la cultura.
Il suo primo contatto con l’Hip Hop avviene a soli 13 anni, attraverso il writing e i dischi americani che ne hanno formato l’immaginario. Da lì, il passo verso il microfono è stato naturale: con la crew UrbanMooveClick dà vita al primo mixtape “50145”, mentre parallelamente si impegna nell’organizzazione di eventi locali, contribuendo attivamente a far vivere la scena fiorentina.
Nel corso degli anni, Coen costruisce il proprio percorso solista pubblicando “WildLove” (2015) e condividendo il palco con artisti di peso come Inoki, Rancore e Bassi Maestro. L’ingresso nel collettivo Mofire Movement e la nascita del gruppo FunKoolHertz consolidano la sua identità artistica, sempre fedele alla filosofia “drop from the head”: scrivere e registrare d’istinto, con l’energia genuina delle jam.
Dopo l’EP “Freccia Rossa” (2018) e l’album “Vale la pena” (2020), Coen torna oggi con un nuovo progetto maturo e intenso: “Metropolitano”, uscito il 29 settembre 2025. Nove tracce prodotte da Dave Gringo, Tao e Crazy Kid, arricchite dalla presenza di ospiti importanti.
Abbiamo incontrato Coen per parlare del nuovo album, e nell’intervista non ha risparmiato nessuno.
Il disco si apre con uno skit sul writing. Non ti sembra incredibile che nel 2025 tra i pezzi sui treni che vengono cancellati, e la wave della streetart, tra sticker, pencil e gallerie d’arte, sia sempre così viva la scena dei pezzi? I pezzi sui treni, i pezzi in linea, i tetti…
Ma guarda, sinceramente non mi sembra incredibile, il writing c’è sempre stato, e fortunatamente è sempre stato fuori dai circuiti e sguardi di persone che non c’entrano niente.
Anche se hai interesse, non è scontato esserci nel mezzo come nel rap. Gravitano altri valori e fatti che purtroppo nell’ambiente rap negli anni si sono persi tutti.
Parli di “incastri di lettere”, è interessante come possono essere le lettere dei pezzi (writing) e le parole dei pezzi (barre delle canzoni), no?
Sì mi diverto con gli incastri, come quando mi intrippo su delle lettere cercando di migliorare o creare un nuovo loop che possa essere originale e divertente, non so se mi spiego.
Per me scrivere è diventato come il dipingere: c’è la mossa scialla, dove mi posso impegnare e cercare di essere il più clean possibile portando anche degli incastri nuovi, c’è la mossa fast, dove vado di getto, non ho tempo da perdere, devo avere la massima resa nel minor tempo possibile (spesso è il modo migliore per capire dove devi migliorare).
Ti dividi tra Firenze e Parma, come vedi le due scene? Conosco l’attitude e la competizioni fiorentine… te che differenze vedi?
Come si dice? Tutto il mondo è paese. Di città in città secondo me il modo di fare alla fine dei conti è sempre lo stesso. Se spacchi spacchi, ma è più difficile avere i giusti meriti.

Hai contribuito attivamente alla scena fiorentina organizzando eventi e collaborando con crew e collettivi. Che ruolo pensi abbiano oggi le realtà locali nell’evoluzione dell’Hip Hop in Italia?
Quello che ho fatto negli anni a molti non frega un cazzo, anzi probabilmente se lo sono già scordati. È proprio questo il problema oggi, non c’è quel vortice che ti tira a sé nel’ambiente hip hop locale.
Ci sono piccole realtà di “artisti” che creano situazioni per poter apparire loro e poi gli altri. Non mi sembra di vedere creare dei movimenti di aggregazione culturale che ti permettono in primis di sentirti nel posto giusto. “Prima ci sono io e quello che faccio io. L’Hip Hop è solo una scusa.”
Spesso si parla appunto che mancano i locali in Italia per suonare, che ne pensi?
I locali ci sono ma probabilmente si sono rotti le palle dei soliti nomi che chiamano gli organizzatori.
Il tuo nuovo album, “Metropolitano”, arriva a distanza di cinque anni da “Vale la pena”. Ascoltandolo sembra che avevi l’esigenza di aggiungere un pezzo che parli di writing e rimettere delle persone a posto, sbaglio? Come hai deciso di tornare con questo progetto?
Metropolitano è stato un attimo di lucidità. In questi 5 anni mi sono allontanato totalmente dalla musica, mi faceva schifo tutto, mi sentivo fuori luogo e sinceramente mi infastidiva la cosa, io che ho corso appresso al’Hip Hop per tutto questo tempo in maniera maniacale, oggi mi dava un senso di estraneità, ma sta roba è difficile staccarsela di dosso.
Mettere la gente al proprio posto è priorità, ed è anche soddisfacente perché poi stanno sempre tutti muti.
Non mi è chiarissimo con chi ce l’hai in modo particolare? La nuova scena?
No non è la nuova scena, ce l’ho con chi è rimasto e si ostina a essere pessimo, con i rosiconi, con i frustrati, con chi ancora oggi fa musica di merda vantandosi di roba che non fa, ma che fa figo scriverlo nei propri testi.
Tutti keep it real, finché non si scopre il vaso di pandora, gente che parla per conto di qualcuno che non esiste, c’è gente a giro che si fa il culo, rimanendo in disparte e in ombra, ma gli sbatti a contrario loro se li fanno concretamente e non per fantasia. Hanno tutti gli amici che fanno le cose serie, ma loro no!?!?!? E che minchia fate allora?
L’album ha varie collaborazioni, ce ne vuoi parlare?
All’interno del disco ci sono vari ospiti:
Emno: un writer milanese, conosciuto in questi anni grazie alla mia seconda passione ovvero il mondo del writing; è riuscito a racchiudere nell’intro la completezza di Metropolitano.
È un fratello che stimo veramente, pochi possono parlare di questa roba così come ne parla lui.
Dank: (c’è poco da dire), oltre a essere un Mc di tutto rispetto nella scena italiana, per me è un’amico che ho avuto il piacere di conoscere quasi 10 anni fa a Parma nella città dove vivo.
Mi ha lasciato un piccolo skit sul finale di “Sacche Sgonfie”.
Boogie Ryan: un altro personaggione della scena parmigiana che ho avuto modo di conoscere in questi anni grazie a Dank, e grazie al condividere la passione sul writing ci siamo trovati, una persona con una forte personalità che mi ha molto ispirato nel vivermi quello che é quel mondo fatto di interesse, passione e soprattuto sbatti.
Don Plemo: anche con lui ci sono poche presentazioni da fare, chi conosce sa, chi non conosce ha una grande mancanza…
Con Plemo è da anni che collaboriamo, da Freccia Rosa a Vale la pena, i miei due album precedenti. È sempre stato una persona super propensa e presa bene nel voler creare qualcosa insieme. Gli mandai il pezzo con Boogie Ryan e gli chiesi degli scratch, so che avevano collaborato anche loro in passato, in pochissimo tempo mi mandò separate e provino. Sapevo che gli sarebbe piaciuto.
Ganji Killah: è una persona che ho conosciuto veramente tanti anni fa, ero un ragazzetto… per la scena fiorentina, ma sopratutto italiana é un capo saldo; il primo approccio serio con lui fu per un suo video che mi contattò per fare la sua parte, quando aveva la mia età (“Pusher fortunato“).. che giornata…
Ho sempre avuto un buon rapporto con lui, sia personale che musicale. Quando scrissi “Indiana Joint ” pensai subito a lui, come facevo a non inserirlo in un pezzo del genere!?
Come nasce la collaborazione invece con i tuoi producer?
Dave, Crazy Kid e Tao hanno curato le produzioni e hanno fatto dei beat che poi calzano tra di loro a pennello.
Dave era salito su a Parma anni fa e volevamo progettare questo fantomatico disco, registrammo dei pezzi, ma per varie vicissitudini dopo non si concluse nulla.
Lorenzino (CrazyKid) mi aveva fatto sentire dei beat e come al solito gli ho detto “questi son mia”. Ci ho scritto su. Ma tutto rimaneva fermo.
Tao forse è stata la scintilla che mi ha svoltato e sbloccato la voglia di fare. È un ragazzo di Parma, mai visto prima, sinceramente mi aveva scritto su Instagram facendomi i complimenti per un live che feci a qualche situazione che non ricordo.
DJ Over mi disse che Tao voleva collaborare, conoscermi; mi aveva fatto sentire qualcosa e allora presi la palla al balzo, ci si beccò e da lì parti tutto un viaggio.
Avevo bisogno di ritornare in bolla con la musica. Dj Over come al solito è stato un professionista e ha saputo toccare tutti i pezzi nel miglior modo possibile.

Guardando indietro, dal tuo primo mixtape a oggi, in cosa pensi di essere cambiato come artista e come persona?
Penso di essere cambiato veramente tanto, sopratutto di persona, che poi va di pari passo a quello che poi faccio musicalmente.
Oggi ho sempre meno pazienza, forse per il poco tempo che ho a disposizione, e questo si riflette sulla schiettezza che ho con le persone e con la musica che faccio.
Mi rendo conto con il passare del tempo che ho bisogno di stare con persone che sono entusiaste di me, e che sono felici per i miei successi nella vita. Non di rosiconi e criticoni che devono mettere sempre in dubbio tutto ciò che faccio, sminuendo tutto quello che costruisco. C’è bisogno di gente che ti arricchisce personalmente.
La musica sei te per quello che sei, come reagisci alla vita e a quello che ti capita.
Come vedi oggi la scena hip hop italiana rispetto a quando hai iniziato? C’è qualcosa che ti entusiasma o che ti manca rispetto ai primi anni?
La scena hip hop in Italia la vedo come la vedevo più di 15 anni fa, piena di gente che se la crede e che pensa di essere chi sa chi.
Oggi sicuramente la vedo più satura di merda e con poca passione e knowledge su questa cultura. A tantissimi giovani che hanno iniziato da poco non frega assolutamente niente delle famose 4 arti, tanto meno chi c’era prima.
Sono cresciuto con la questione del tramandare, riconoscere e studiare oggi non esiste più, o meglio è difficile trovare persone che si avvicinano all’Hip Hop perché gli piace l’Hip Hop.
Una domanda che sto facendo ai vari mc che intervisto: cosa ne pensi della nuova scena di freestyler e “muretti”, ovvero le piazze con i contest di freestyle che stanno nascendo?
Interessante, ma a senso unico. Tutta quella gente perché non la vedo poi a vedere Krs One?
L’esperienza con Mofire Movement e la nascita di FunKoolHertz sono, credo, tappe fondamentali del tuo percorso. Usciranno dei nuovi progetti sotto questi nomi?
Mofire è stato un percorso incredibile e di momenti pieni che raccontano la storia di quegli anni e chi c’era sa, non penso che possa rinascere qualcosa, ma forse è meglio così.
Funkoolhertz è casa, amici a cui tengo veramente tanto. Asso (tantissimi auguri di buon compleanno!), Rashid, Crazy, sono persone incredibili con cui ho la fortuna di continuare a condividere situazioni, e di ricordarmi costantemente perché mi piace e odio questa cultura; sicuramente ne abbiamo ancora da dire.
L’ultima domanda è d’obbligo: mi dai un tuo ricordo personale di un rapper e amico che se ne è andato troppo, troppo presto, Marco “Wille DBZ” Dabizzi?
Willie per me è stato il fulcro della musica. Mi ha fatto capire quanto la musica possa essere importante e fondamentale. Quanto ti può far star bene e far crescere, per renderti migliore con te stesso.
Marco è più di un ricordo da condividere, chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e viverselo come me, sa di cosa sto parlando.