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Meat Puppets: Oltre il punk, oltre l’hard rock, quasi folk?




Meat Puppets; foto di Kee-Ho Casati

Per quelli della mia generazione, quelli che per intendersi si sono ritrovati teenager negli anni ’90 con un paio di Dr. Martens ai piedi (le mie erano viola), esiste un momento preciso in cui i fratelli Kirkwood, Curt e Chris, ovvero i Meat Puppets, entrano a far parte dell’immaginario collettivo. Quel momento è ovviamente “Unplugged” dei Nirvana, disco simbolo di una generazione, nel quale uno stralunato Kurt Cobain, all’apice della fama e della paranoia, invitava i due fratelli capelloni ad eseguire non uno ma ben tre pezzi del loro repertorio, repertorio che alle grandi masse a cui — nel bene e nel male — si rivolgevano i Nirvana, risultava pressochè sconosciuto.

Io, come molti miei coetanei di allora, scoprii solo dopo che i Meat Puppets non erano stati paracadutati nel mondo del music bizness dal cielo. Vantavano invece una carriera decennale, che aveva già prodotto almeno un paio di dischi fichissimi (“Up on the Sun” e “Meat Puppets 2” su tutti) e che si era interlacciata con un’etichetta gloriosa, la SST (etichetta da dove prese il via anche la carriera di un’altra band destinata a fare grandi cose negli anni ’90, i Soundgarden).

Terminato quel periodo di esposizione mediatica, che ebbe come effetto più concreto il successo commerciale di un disco, “Too High to Die”, trainato dal singolone “Backwater”, i Meat Puppets se ne tornarono con orgoglio nella loro amatissima nicchia, lontani dai riflettori e da quel carrozzone eterogeneo denominato grunge che sconvolse il mondo agli inizi degli anni ’90. Carrozzone al quale, sia chiaro, i Puppets non sono mai appartenuti.

Dopo anni turbolenti, nei quali la band non è riuscita ad esprimersi al meglio, a causa dei problemi legati all’eroina del fratello minore Chris e di continue “pause” e cambi di line up, la formazione dei due brothers è tornata sul mercato con un nuovo lavoro, “Lollipop”, uscito lo scorso anno. In occasione del loro ultimo concerto fiorentino ho avuto la fortuna di poter scambiare due chiacchiere con Curt Kirkwood, leader della band. Quel che segue ne è il risultato.

Vivi ancora in Arizona?
Adesso vivo ad Austin, nel Texas.

Perché te ne sei andato dall’Arizona?
I miei amici si facevano troppo e sono dovuto andar via.

Hai avuto problemi anche tu?
Ne ho fatto uso ma non mi piaceva. Dovevo andarmene di lì però.

Che tipo di ambiente era l’Arizona?
Niente di che. Giusto un piccolo gruppo di amici, molto compatto. Eravamo a nord di Phoenix, nella suburbia della metropoli, dove non c’era praticamente musica. Nessuna scena, giusto un po’ di punk rock, e quindi si poteva finire solo lì. Phoenix è nel deserto, in mezzo al nulla. Motociclette, caccia, pesca. Questo era tutto quello che c’era da fare…

Cosa ti ha portato ad esser un musicista allora? La noia?
Si. Ho smesso di andare a caccia e di girare in moto. Ne avevo le palle piene. Quindi cominciai a suonare in qualche band. Cover band.

Di chi facevate le cover?
La mia prima band fu disco/dance.

Davvero!?
Si. Kool & the Gang, Average White Band, Bee Gees, qualsiasi cosa. Anche qualche evergreen, come qualche lento di Barbra Streisand. Ci vestivamo tutti col completo blu.

Cantavi?
No, suonavo solo la chitarra. Poi avevamo una tromba, una ragazza che cantava e suonava il flauto… Eravamo dei buoni musicisti, suonavamo i pezzi così come li sentivi sul disco. Il gruppo si chiama Kili, una parola apache che significa “guerriero” (ride).

Un nome appropriato direi!
Tutti nel gruppo erano di origine messico/chicana. Io ero “il tizio bianco”. Il mio secondo gruppo si chiamava Granite Reef che è il nome di una formazione rocciosa poco fuori Phoneix. Era un gioco di parole, sai come “hard rock” (nel senso di roccia dura) e reef inteso come “reefer” (uno dei tanti sinonimi per la marijuana). Suonavamo Lynyrd Skynyrd, Kansas, insomma hard rock.

Come arriviamo ai Meat Puppets?
Ho cominciato a capire qualcosa di musica, prima non sapevo niente. Avevo un amico, Derrick (il primo batterista dei Meat Puppets), che amava il punk, i Damned, gli Stiff Little Finger, il dub, il reggae, e mi fece scoprire tutte queste cose. A me ad esempio piacevano i Grateful Dead perché pensavo: “Cazzo! Loro possono fare quel che vogliono!” Lì realizzai che anche io ero interessato a fare solo ciò che volevo e quindi l’amore per il punk fu naturale. Però non suonavamo solo quello, ci mettevamo dentro un sacco di roba diversa. Tra l’altro, venni buttato fuori dai miei primi due gruppi.

Perché?
Fumavo troppa erba! (ride)

Credevo fosse accettato quando si è giovani e musicisti.
Lo credevo anch’io. E poi, voglio dire, venivo già buttato fuori da quelli che erano i “lavori normali”… Quindi decisi di iniziare la MIA band, così che non potessi esser licenziato. Comunque, ho cominciato a suonare quando avevo 17 anni e ho dato vita ai Meat Puppets quando ne avevo 21.

Perché proprio il nome Meat Puppets?
Era una canzone che scrissi. Il nome era buffo e lo scelsi per il gruppo.

Tornando ai Grateful Dead, è da loro che proviene quel sapore psichedelico che ha accompagnato tutta la vostra carriera?
No. Viene dall’Lsd (ride).

Ok.
Voglio dire, so che anche loro hanno avuto la stessa influenza. So che Jimi Hendrix ha avuto la stessa influenza. Stessa cosa per Pete Townsend. Questo è quanto. Massima sincerità. Non saremmo esistiti senza gli acidi.

Cosa mi dici dei vari scioglimenti che ha subito il gruppo?
Non c’è mai stato un vero e proprio scioglimento. Il fatto è che Chris (il fratello) era una di quelle persone a Phoenix che semplicemente si facevano troppo. E quindi gli ho detto: ”Adesso ci fermiamo per un po’, fino a che non smetti di farti.” Poi però gli ci son voluti dieci anni. Quindi non ci siamo mai realmente sciolti. Mi spostai a Los Angeles ed incontrai Shannon (l’attuale batterista della band) ma non riuscivo a trovare un altro con cui suonare. Il tempo passava ed alla fine incontrai Kyle, l’altro bassista, e questi diventarono i nuovi Meat Puppets. Fu percepito come uno scioglimento. Derrick si sposò, Chris cazzeggiava a giro e noi tornammo con delle facce nuove e quindi… Ma le cose non andarono benissimo. Misi su un’altra band con Krist Novoselic (il bassista dei Nirvana) e Bud Gaugh (il batterista dei Sublime), ci chiamavamo Eyes Adrift ma durammo solo un paio d’anni (2002-2003). Ho fatto un disco solista e poi ho voluto fare un altro album dei Puppets e quindi la gente ha cominciato a dire: “Hey! Si sono rimessi assieme! Chris sta bene!”

Sta bene Chris adesso?
Si.

Sono contento di sentirtelo dire.
Non avrebbe potuto esser altrimenti. Non ho mai pensato che fossimo finiti, ci sono solo state delle pause.

Cosa mi dici del vostro ultimo disco “Lollipop”? Che aspettative avevi, anche considerando queste pause di cui abbiamo appena parlato?
Solite cose. Cerco sempre di tenere basse le mie aspettative. Di solito le aspettative tendono a rovinare tutto. Quando faccio un disco non ho mai un tema o una visione. Entro in studio e quando il disco è finito, beh, quello è il disco. Se ascolti i pezzi c’è un po’ di riff rock, un po’ di cose diverse, così per divertirsi. Ma fondamentalmente sono canzoni folk.

Canzoni folk? Ok…
Si, se ascolti “Plateau” è una canzone folk. Puoi suonarla con una chitarra acustica mentre fai un falò.


La versione originale di “Plateau”.

Mi pare che qualcuno di veramente famoso l’abbia fatto…
Si, ne ho sentito parlare (ride). Ecco, vedi, quello è un buon esempio di come prendere le mie canzoni e farle suonare in stile Neil Young, o in stile Harry Chapin. Oppure prendi lo stesso pezzo, ci metti sopra un bell’overdub e delle chitarre strane, e vedi che ne esce fuori. E’ sempre divertente scoprire cosa succede. Quello è il divertimento. Inseguire una visione non è divertente per me. Preferisco scartare il regalo e scoprire cosa c’è nel pacchetto.


La versione di “Plateau” registrata per “Unplugged in New York” dei Nirvana assieme ai fratelli Kirkwood.

Cosa puoi dirmi dell’esperienza di “Unplugged” coi Nirvana?
Cosa vuoi sapere?

Beh, come andarono le cose? Tipo, Kurt ti ha chiamò e ti disse: “Hey, perché non venite a fare un po’ dei vostri pezzi unplugged con me?”
Più o meno è andata così. Facemmo qualche concerto assieme ed una serata, dopo uno di questi show, ci mettemmo a parlare di questo unplugged che loro avevano intenzione di fare. Kurt mi disse che voleva suonare tre dei nostri pezzi (rispettivamente “Plateau”, “Oh me” e “Lake of fire”, tutti tratti dal loro classic album “Meat Puppets 2”), ma che non aveva idea di come suonarli in quella occasione, e quindi ci invitò a farlo assieme a lui. Fu decisamente facile.

Lo rifaresti?
Sicuro! Mi piacevano i Nirvana, mi piaceva parecchio anche Kurt!

Che tipo di persona era?
Silenzioso. Alla mano. Timido.

Hai mai avuto la sensazione che potesse suicidarsi, cosa che accadde sei mesi dopo quella registrazione?
Onestamente si, avevo una brutta sensazione.

Davvero?
Nell’unplugged lui era così appassionato, ma anche così stravolto. Che altro potrà fare adesso, mi domandai? Quell’esibizione sembrò una specie di canto del cigno. Quando si uccise, non voglio dire che la cosa avesse senso, ma non fu un fulmine a ciel sereno.

Quindi la cosa non ti sorprese.
Dovevamo venire a suonare qua in Italia e lui cercò di ammazzarsi a Roma. Avremmo dovuto incontrarci con lui due giorni dopo per fare un tour italiano e pensai: “Cazzo, questo è grave.” Noi eravamo già qua, aspettammo un paio di settimane e poi il tour dei Nirvana fu cancellato. Facemmo qualche data per conto nostro, poi ci incontrammo coi Soul Asylum e ci unimmo al loro tour, che avrebbe dovuto prendere il via subito dopo quello dei Nirvana. Volai negli States, scesi dall’aereo, presi in mano il primo giornale che trovai e, boom, era morto. Chiariamoci, fu uno shock, ovviamente fu uno shock. Non pensavo che fosse una buona idea quel che tentò di fare a Roma. “Cazzo è triste, cazzo allora lui è davvero triste,” mi dissi. E quando si uccise fui schockato come tutti. Non puoi aspettarti una cosa del genere. Specialmente con una pistola del genere… Fu orribile. Semplicemente orribile.

A quale disco sei più legato?
Sicuramente “Meat Puppets 2”. Capisco che Kurt abbia scelto quelle canzoni. Ci sono anche cose da “Too High to Die” che mi piacciono, ma non posso dire che mi piaccia tutto l’album.

C’è invece qualche disco di cui ti sei pentito?
No. Assolutamente.

A proposito di “Too High to Die”, disco che uscì dopo la vostra performance all’unplugged e dopo la morte di Kurt. All’epoca vi inserirono nel calderone del grunge. Che effetto ti fece?
Beh, non è il primo movimento nel quale fummo inseriti. Non fu la prima volta in cui altre persone ci dissero: “Voi siete questo!” Ma lo dissero gli altri, non noi.

Quello fu comunque il vostro disco di maggior successo, commercialmente parlando.
Beh, era il periodo in cui, all’improvviso, il punk rock stava diventando di moda. Ma ci infilarono anche nella stessa scena dei Red Hot Chili Peppers. O in quella dei Rem. O in quella dei Violent Femmes. All’inizio della nostra carriera ci definirono hardcore. I critici ti attaccano sempre un’etichetta. Ci hanno chiamato count-punk, nel senso di country punk. Ce ne freghiamo. Facciamo un sacco di cose diverse, ci sono così tante immagini nella nostra musica. “Lake of fire”, ad esempio, è un country-blues.

Hai la sensazione che band come la tua e le altre che stavano sull’etichetta SST (come Husker Du, Sonic Youth e Dinosaur Jr.) abbiano spianato la strada per tutte quelle band che avrebbero poi avuto un incredibile successo commerciale nel decennio successivo?
Se ne avessi la sensazione? Mmm, io pensavo che i Black Flag sarebbero diventati famosissimi dieci anni prima dei Nirvana. Mi sembravano parecchio fichi, come anche i Misfits o i Fear. Credevo che quella roba sarebbe diventata grande, non ho mai pensato che magari altri ragazzini, ascoltando la nostra musica, sarebbero diventati grandi a loro volta. Quando feci l’unplugged ero un ragazzo anch’io, avevo 34 anni. Mi capitò spesso di incontrare persone che poi da lì a breve sarebbero diventate famose. Qualche anno fa avremmo dovuto suonare con Katy Perry.

Katy Perry?!
Si, era un festival e c’era diversa gente. C’eravamo noi, Ben Harper, Katy Perry, un cartellone abbastanza strano…

Decisamente.
Noi dovevamo salire sul palco subito prima di Katy Perry ma lei poi mollò il festival. “Chissà perché se n’è andata,” pensai tra me e me. Devo dire che mi piaciucchiava quel pezzo, “I kissed a girl”. Era orecchiabile. Ma dopo quella canzone Perry divenne immediatamente famosa e quindi si rese conto che non aveva bisogno di quel concerto.

Sto pensando a “Backwater”. Quella era una canzone perfetta da rabbia adolescenziale anni ’90.

Penso che come canzone sia ok. Mi sorprende che alla gente piaccia così tanto.

Perché?
Non dico che non mi piaccia, ma non è tra le mie preferite. Non capisco… Ad esempio ieri sera, a Roma, quando abbiamo fatto quel pezzo la gente ha cominciato a pogare. Per me va bene. Però, ecco, quando ho scritto quel pezzo, era un pezzo gospel. Lo scrissi per organo ed era molto lento, non era pensato per una rock band. E’ strano pensare che sia nata in quel modo e poi finita così.

Anche il movimento punk si è spostato in una zona più mainstream-commerciale. Cosa ne pensi?
Beh mi piacciono i Green Day: quando uscirono li trovavo divertentissimi. Ma non posso dire che me ne freghi molto. E’ roba da centro commerciale, che deve suonare in un certo modo. Quel punk prese vita nei primi anni ’80 con l’hardcore. “Se non suoni forte e veloce non sei fico!” E io mi dissi: “Fottetevi!” Ecco perché secondo me eravamo diversi dalle altre band che stavano su SST, ecco perché uscimmo con dischi come “Up on the Sun” o “Meat Puppets 2” quando tutti gli altri volevano solo spaccare tutto. La musica per me è musica. Non voglio essere categorizzato. Mi piace la libertà. Non mi frega dei clichè, del genere o degli stili. Se il messaggio è chiaro, se riesco ad avere sensazioni, va bene. A me piace George Jones ma non per questo mi piace il country. Mi piacciono le sensazioni che mi regala. Ora, lui è un tizio del country però mi ricorda parecchio Kurt Cobain. La stessa sensazione che provo quando guardo un Van Gogh, ma non per questo mi piace la pittura ad olio.

Hai mai pensato che la tua band sia stata sottovalutata?
Credo che siamo stati molto fortunati: questo è un mondo grande, man. Miliardi di persone. La fama, la notorietà, non le ho mai volute, non mi sono mai interessate. E, ad oggi, continuano a non piacermi.

Negli anni ’90 avreste potuto saltare sul carro dei vincitori.
Si, se lo aspettavano un po’ tutti da parte nostra, sicuramente. Dopo “Backwater” l’etichetta ci disse: “Datecene un’altra!” Ed io invece volevo solo fare quello che interessava a me. Non ci siamo mai travestiti da qualcos’altro, non abbiamo mai suonato punk-flanella (ride). Non stavamo a guardare chi stava diventando famoso. C’erano i Pearl Jam, i Soundgarden, i Nirvana, gli Stone Temple Pilots, tutti gruppi con un big sound. Così dopo “Too High to Die” ce ne uscimmo con “No Joke” ed all’inizio del disco misi pezzi potenti come “Scum” per fare capire che non stavamo scherzando (“No Joke” appunto). Ma stavamo solo cazzeggiando. Ok, casa discografica, ecco il vostro fottuto disco da alternative rock band! Mi piace quel disco, ma fu più che altro una reazione, il nostro modo dire: “Ecco l’hard rock!” Perché per noi il grunge non era altro che l’hard rock. La prima volta che sentii i Nirvana pensai ad un incrocio degli Aerosmith coi Metallica con un pizzico di Iggy Pop. Ma, insomma, era tutto hard rock. E io non volevo essere in una band hard rock, amo troppo il country!

Sei sempre in contatto coi tuoi compagni di etichetta, la SST?
Si, si.

Con chi parli?
Beh, spesso ci incontriamo proprio. Chuck Dukowski dei Black Flag, Mike Watt dei Minutemen, più o meno chiunque degli Husker Du. Sono stato in tour con Bob Mould, entrambi da solisti, un paio di anni fa. I Sonic Youth, conosco quei ragazzi dall’82, sono tra i miei amici di più vecchia data. Abbiamo appena fatto un tour coi Soundgarden che sono stati per un po’ di tempo su SST.

Come sono i Soundgarden oggi?
Fucking amazing! (fottutamente grandi!). Sono grandi come lo sono sempre stati.

Li vidi nel ’96 poco prima che si sciogliessero. Poi sono nati gli Audioslave e Chris (Cornell), invece…, beh ha fatto quel che ha fatto. Non riuscivo a credere ai miei occhi quando vidi quella cosa con Timbaland.
Ahahahahahahah!

Guarda io amo l’hip hop, ma quello…
Anche io amo l’hip hop! N.W.A! Schooly D è uno dei miei preferiti, adoro quella roba! E’ una cosa che sanno in pochi, è una di quelle cose che non potrei mai provare a fare, non mi riuscirebbe mai. Chris (Cornell) è uno intelligente, un tipo interessante, se l’ha fatto vuol dire che lo riteneva giusto. Ma non discuto gli artisti, io seguo l’arte. Mi fido dell’arte, non degli artisti. Comunque, il disco con Timbaland non l’ho mai sentito! (ride)