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Se Gaza è una casa



Foto di: Hosny Salah, reporter palestinese originario della Striscia di Gaza

Oggi, quasi per caso, mi sono chiesto cosa significa “casa” per me.

Camminavo scalzo sulle piastrelle della sala da pranzo quando all’improvviso mi sono reso conto che “casa” è un’estensione del mio corpo. Ci sono radici invisibili che, uscendo dai miei piedi, affondano nelle strutture portanti. Dalle finestre aperte circola un’aria che è anche il mio respiro. Ogni stanza è una nicchia spirituale consacrata a ben precise attività.

Proprio come un corpo, la casa ha una storia, un significato, cicatrici (piccole o grandi crepe nell’intonaco) e nel mio caso, pareti che mi hanno visto bambino. La casa è tempio, rifugio, memoria. È il guscio del paguro, la scorza della tartaruga: la portiamo con noi nel cuore e nella mente mentre siamo in viaggio. E lei ci aspetta. È una certezza, un’indicazione sulla strada del ritorno.

Ora, immaginiamo che in un istante venga cancellata: in un istante, tutto questo volatilizzato.

Così, sotto gli edifici di Gaza muoiono i corpi, schiacciati dai ricordi di una vita, soffocati dall’amore che fino a quel momento li proteggeva. Sotto le macerie muoiono le persone, le storie, la certezza del conforto. Le macerie sono la morte dell’identità.

A Gaza ci sono persone che non riconoscono neppure la propria strada, perché la strada scaturiva dagli edifici che la delimitavano, edifici ormai sventrati, dilaniati, schiacciati come i corpi di cui sono divenuti lapide colossale. Da città a cimitero nel volgere di due anni.

Tanto è letale l’accuratezza delle armi moderne, che in pochi secondi abbiamo potuto osservare, ammaliati e sbigottiti, il collasso di un grattacielo colpito da un singolo missile. Scienza tombale.

Eppure, presto potremo rivendicare una parte di quel vasto camposanto per contribuire a riscriverne la geometria e l’estetica; e con lauto guadagno, perché – questo andrebbe scritto su tutti i muri di Gaza, dopo la ricostruzione – i soldi investiti proverranno dagli stessi paesi che hanno reso possibile il massacro. Stati Uniti in testa. Ma poi anche Germania, e Italia.

La presidente del consiglio Giorgia Meloni si è difesa dalle accuse di compartecipazione al genocidio affermando che dal 7 ottobre 2023 il governo italiano non ha autorizzato nuove forniture di armi a Israele. Ma questa è solo una parte di verità: continuano le vendite di armamenti siglate nei precedenti contratti. E se l’1% italiano di vendita di armi a Israele appare esiguo rispetto al 66% di USA e al 33% di Germania (fonte: Sky Tg24) esso non è irrilevante.

Qualora, poi, le armi italiane non fossero state utilizzate contro i palestinesi, sul piano simbolico valgono molto, poiché la politica si nutre anche di gesti simbolici, e un embargo totale ci avrebbe resi più credibili al tavolo di “pace” come a quello di un’eventuale ricostruzione.

Tutta l’operazione, vista in questi termini, assume i contorni di un’orrenda speculazione ai danni di un popolo senza diritti – primo fra tutti quello all’autodeterminazione – e di un ben architettato raggiro dell’opinione pubblica internazionale.

Mentre i proiettili ancora crepitano in Palestina e Cisgiordania appare prematuro (se non velleitario) parlare di ricostruzione. Il governo italiano ha cominciato a farlo, e pronti a scendere in campo pare ci siano i soliti colossi dell’energia e del cemento, come Eni e Ansaldo.

Più interessante il progetto presentato da Benno Albrecht, rettore dell’Università Iuav di Venezia, che propone di spostare in loco la produzione dei materiali, formando la popolazione locale alle tecniche di costruzione.

La buona fede di qualunque piano, infatti, ruota attorno a tre quesiti. 1) Da quali fondi proverranno gli investimenti per la ricostruzione? 2) Che ruolo avranno i palestinesi nel disegno della nuova Gaza? 3) Che cosa sarà loro chiesto in cambio di una nuova casa?

Senza una risposta onesta e trasparente a queste domande non potranno essere erette abitazioni che siano una continuità di corpo, spazio e memoria (anche dolorosa) ma solo simulacri di un ingannevole splendore, raggelante come le ricche tappezzerie dell’Overlook Hotel, destinate a qualche riccone magari, e pronte, da un momento all’altro, a richiudersi su sé stesse, come una pianta carnivora o un fiore maligno.