Ph. Keeho Casati
Io non so un cazzo.
E’ passato un anno, ma non per questo ho la presunzione di avere una conoscenza che superi i limiti della critica.
Infatti, come ogni mio articolo, lo ripeto (e che si legga bene).
Posso dire che in un anno ho visto cambiamenti non dirò radicali, ma sostanziali nella scena hiphop.
Ad esempio, ho visto personaggi dell’underground addentrarsi nei meandri del mainstream; ho visto personaggi abbandonare momentaneamente i propri fratelli per un chiaro dettame della propria major; ho visto personaggi che si sono trasferiti da città in cui la scena, apparentemente florida e disponibile, in luoghi cupi, ma con un terreno fertile a nuove rime e note diverse; ho visto personaggi riconosciuti a livello nazionale e stimati; ho visto personaggi con un’assoluta mancanza di conoscenza grammaticale, ma ho visto anche personaggi che non scrivono testi, compongono poesie; ho visto personaggi valutati come la nuova scoperta del rap e così è stato; ho visto personaggi che non hanno più suonato nella propria città per suonare più volte in altre; ho visto personaggi che ritenevo capostipiti del genere confermarsi come tali.
Come dire, ho visto cose che voi umani… potreste immaginare.
Non so se voglio discutere di un unico artista. Sì, potrei parlare di Gruff, potrei parlare di Cleme, potrei parlare di Salmo, Kiave, Ghemon, Coez, Turi…
Ma forse voglio dare una visione generale di ciò che a me pare la scena italiana. Magari avrei dovuto scriverlo molto tempo prima, come il primo dei molti articoli che avrei dovuto scrivere nella mia rubrica.
La domanda principale è: c’è una reale scena hiphop in Italia?
La risposta mi pare scontata a partire dai primi anni 90, mentre io giocavo con i soldatini, Neffa, i Colle, Kaos, Bassi, Esa, Torme… Insomma i big scrivevano i loro capolavori che sarebbero rimasti come impronte su una stesa di cemento appena colato.
Ho parlato molto di questo argomento e la descrizione che personalmente sono riuscita a trovare è assolutamente personale e opinabile.
Ho notato che, benchè l’Italia sia unita, ci sono delle sostanziali differenze stilistiche da nord a sud (ovviamente sezionando la scena, perciò ho la pretesa di prescindere dai singoli individui).
Milano. I primi nomi che vengono in mente nella scena ATTUALE? Club Dogo, Marracash, Fabri Fibra (che sì, belle rime, “Uomini di Mare” bella storia, ma per il mio personale gusto ha una voce assolutamente disarmonica; oltretutto associata ad alcuni pezzi trash, ha perso anche quel poco di interesse che poteva sorgermi)… Non parlo di te (che lo so che stai leggendo e che sei nato con l’hiphop e che le rime ti vengono mentre stai mangiando un piatto di pasta al ragù, che sei rigorosamente old school e talvolta magari ti autociti), sto parlando di chi (come me), non sa un cazzo di rap, che si affida alla tv (assolutamente inaffidabile ok, ma MTV lo sta spingendo l’hiphop), che guarda Youtube e VEVO consiglia Fedez, di chi se gli chiedi “Old school?” ti risponde imbarazzato sempre i soliti due nomi e se riveli che Neffa era un pilastro ti guarda strano come se stessi parlando una lingua arcana.
Insomma, inutile negare che se guardi verso nord, coloro che ho citato sono i primi a venire in mente.
E a parte giocare a PES, particolari attitudini non ne ho ancora trovate. Commerciale, cattivo gusto, non è rap: è parlare molto veloce con assonanza di terminazione di vocaboli, oppure ripetere la stessa parola al termine di ogni frase (che ahimè, non è una rima). I termini sono importanti: una volta Ghemon scrisse un pezzo insieme a Mistaman che si intitolava “Il Pezzo Rap”.
“E poi man, lo slang younahmean?? Le parole in inglese come ‘drink’ e ‘dream team’, fanno rima
Con ‘bling bling’, che va tanto di moda e dici ’Cazzo, uomo
questa è la mia merda nuova!’”
Così si fa un pezzo rap. Non voglio così cedere al sarcasmo e generalizzare, ricordiamo di chi e di quale “sottocategoria” sto parlando.
L’impressione è radicalmente coerente con il panorama italiano: apparenza è più importante della sostanza. Clichè? Non credo.
Quando alle puntate di “Spit” su MTV presentava Marracash (che ha un evidente difetto di dizione) ed esordiva con “Sono il king del rap”, mentre Clementino di lì a pochi minuti avrebbe fatto tacere anche gli usignoli dall’extrabeat del suo freestyle, ecco queste mi sembrano palesi manifestazioni di una carenza di valorizzazione.
Capisco che l’immagine migliore che possa venire in mente sia il rapper West Coast con le groopies, catene e colori improbabili, ma con tutta probilità quel personaggio per avere quelle tipe non le ha pagate, ha fatto sì che la sua voce le chiamasse. Mentre qui mi pare che si sia perso (anzi, al mainstream non è mai interessato), il valore della voce e del contenuto dei testi. La roba che MTV spaccia come rap, non ha proprio niente a che vedere con l’original hiphop roots. Hanno creato il personaggio, messo qualche parola in bocca, agghindato un po’ e poi (come ci ha insegnato la politica italiana) spinto con tutti gli strumenti a disposizione per la divulgazione di massa.
E quello che rattrista di più è vedere come le nuove generazioni siano così altezzosamente truzze e prive di degne basi.
E il contraddittorio dov’è?! A Roma.
Chiaramente, non solo lì, ma trovo che nel centro Italia, con particolare riferimento alla capitale, si possa trovare una massiccia parte dell’underground come dovrebbe essere. Quello più hardcore, che non si è formato per imposizione, ma è lì perchè una rima dopo l’altra si è costruito la propria fortezza.
Mettiamo a confronto due artisti dall’età assai giovane (evito nomi tipo Salmo, perchè se no non c’è gioco):
Analizziamo il primo pezzo: Fedez. Classe 89. Potrei già concludere con la prima domanda che mi viene in mente: per quale motivo senti il bisogno di usare AutoTune?
Perchè senza quello non riesci ad essere un minimo intonato su una base devastatamente insipida o perchè fa figo e se ti sintonizzi su BBC Radio, tutti i rapper lo usano? E guarda caso, ciò su cui Ghemon ironizzava è proprio qui. Ganja, amichetti di merende (che però son più tosti dei vostri), bitches, incendi di camionette, “fuck the police” e poi… “ho visto più erba di un corso di giardinaggio” e “ho visto più lame di un corso di pattinaggio sul ghiaccio”. Ha visto l’erba del vicino che è sempre più verde al massimo, e lame di che? Temi un po’ standardizzati. Non solo è quasi trash, ma di un’originalità alquanto blanda.
Non metto in dubbio l’ironia del pezzo. Ma indipendentemente dal tema trattato, non è qualitativo, dal mio punto di vista.
Ma il secondo pezzo. Tralasciamo Masito (che giassai). RAK. Classe 87. La voce è sua, potente, esprime carattere, è sicuro, il tempo gli appartiene, il beat è lui che lo guida.
Il testo non è banale. Non parla del ghetto, non discute di quanta ganja ha fumato, ma di un disagio. E lo racconta bene. Bel flow, bella base. Contributo di Masito essenziale.
Due righe, ma ho già detto tutto.
Invece, se continuiamo a scendere lo stivale troviamo esempi come Kiave, Ghemon Stokka e Madbuddy o Mirko Miro, che sono proprio un altro stile. Un’altra roba, un altro sound, un altro metodo di concepire se stessi e riproporlo.
Pensando a loro, mi viene in mente qualcosa di più.. mediterraneo? Le parole non sono scontate, sono profonde. Ogni argomento è affrontato con una certa consapevolezza, le rime sono ben studiate e la voce ben amalgamata con le loro voci.
Che si parli di problemi esistenziali a livello sociale (come può fare Kiave) o a livello personale (come si può riscontrare in Ghemon), c’è una reale profondità di intenti. La comunicazione che segue un’armonia, che non è la classica old school, ma qualcosa di fresco e sinuoso. E’ qualcosa in cui ti puoi ritrovare. Parole che possono essere tue.
Come potrebbe essere una folata di vento che porta con sè le foglie in un vortice, la loro voce si lascia accompagnare dal beat e presenta un messaggio che attraverso le note viene interiorizzato immediatamente e assorbito.
Vorrei dire che se Pino Daniele avesse fatto rap, si sarebbe avvicinato molto a Ghemon piuttosto che a Clementino, ma comunque, rischierei di essere fraintesa e tralascerò questo paragone. In ogni caso, trovo (almeno per quanto riguarda Ghemon), che nei suoi pezzi, si trascini volontariamente una qualche sfumatura mediterranea che dà quel sapore di dolcezza, che altri non danno.
E’ facile parlare di rap. No, non è vero.
“Mentre questa pioggia che non smette manda all’aria i miei discorsi”.