Che Tarantino avesse un debole per i vecchi film italiani non era più un segreto per nessuno. Con Django il suo culto per la cinematografia passata trova espressione in un film visivamente perfetto e una storia come al solito accattivante, costellata di dialoghi efficaci e di un’arguzia ironica rara nel mondo delle pellicole. Ma del resto Quentin crea sempre complessi intrecci pieni di eco cinematografiche che parlano direttamente agli amanti della storia dei film.
Django- Jamie Lee Fox- è uno schiavo che viene liberato dal dottor Schulz (interpretato dallo stesso Christoph Waltz di “Bastardi senza gloria” che padroneggiava tutte le lingue parlate nel film), “dentista” dal grilletto facile e la parlata eloquente che gira con il suo carretto sormontato da un grosso dente finto come insegna (geniale trovata del regista che con questo pugno nell’occhio ci ingrazia immediatamente il personaggio). Insieme intraprendono la carriera di Bounty Killers (cacciatori di taglie del vecchio Far West), e la ricerca della moglie di Django, schiava in una piantagione di cotone appartenente al potente Mr Candie (interpretato da un Leonardo Di Caprio più credibile che mai nelle vesti del vero cattivo della vicenda). Il cammino dei due-che diventano amici- è intriso di sangue e violenza, in un panorama paesaggisticamente d’incanto ma in un clima di bieco razzismo.
Gli insulti razzisti infatti si sprecano come il sangue che zampilla come da fontane anziché da corpi umani, e la ferocia di certe immagini raccomanda la visione ad un pubblico adulto, che può godere di scene terribili ma cinematograficamente costruite ad arte. Come ad esempio il momento del travestimento di Django da valletto/paggio settecentesco in calzamaglia azzurra che cavalca su un destriero (atto vietato dalle leggi dell’epoca ovviamente), nei campi di cotone, in una carrellata epica dai colori di una bellezza imbarazzante. Per non parlare poi delle musiche, e soprattutto dell’omaggio che Tarantino rende al lavoro di Franco Corbucci dando un piccolo ruolo al grande Franco Nero col suo glorioso cameo. Tra le altre chicce italiche occorre poi notare la scelta della canzone intonata da Elisa, dal titolo “Ancora qui” composta da Ennio Morricone.
Lo stesso Tarantino prende parte come al solito al suo capolavoro ritagliandosi una piccola parte alla fine dei giochi, quando si è consumata la battaglia personale del nostro Freeman e la sua bella Broomhilda. Battute caustiche e proposte musicali originali fanno del tutto un grande esempio di regia (Tarantino ha il dono di sfornare dialoghi estremamente taglienti, conditi da note scelte con lo stesso humour nero, mentre i tagli del montaggio non fanno che seguire un ritmo serrato e incalzante). Il gusto barocco del cesello abbaglia lo spettatore che uscirà dalle sale quanto meno colpito dall’onestà delle sequenze, e la forza bruta dell’eloquio parlato.
Fenomenale anche l’interpretazione di Samuel Lee Jackson, totalmente trasfigurato nelle fattezze del viso e del corpo, che è stato trasformato in un anziano “Uncle Tom” (così venivano chiamati i neri che all’epoca dello schiavismo si schierarono dalla parte dei bianchi facendosi proteggere in cambio dei propri servizi) che sarà l’ultima delle vittime di Django. Con i suoi 165 minuti è il film più lungo della produzione del regista.