Il “vizio” di omaggiare i drive-in nel Lower East Side (New York) è venuto a Ben Smyth e a suo fratello Hall. “Dopo l’11 settembre l’America ha cambiato testa, l’industria vive una sorta di ‘estasi catatonica’. L’idea di aprire uno spazio, chiamato Grand Opening, nella Norfolk Street di Manhattan, è nata anni fa per accompagnare gli spettatori in un cinema caldo, protetto. Terapeutico. I clienti arrivano qui come se ci fosse bisogno di un analista: manager, broker, registi, attori… L’esperienza del guadare un film è secondaria” sostiene Ben.
I fratelli Smyth ricreano per loro erba sintetica al posto del pavimento, cielo stellato disegnato a mano, un tramonto laterale di cartapesta preso di peso da un qualsiasi palcoscenico vintage, non mancano gli uccellini all’orizzonte e il ramo di un albero piantato in un vaso di porcellana, che riproduce un’arcata romantica sopra una Ford Falcon decappottabile del 1965, parcheggiata davanti allo schermo e con un posto auto per sei persone. “È meravigliosa. L’abbiamo comprata su eBay”. La chicca, per i nostalgici delle atmosfere sature di suoni stentorei, è scoprire che l’auto dispone di una radiolina collegata a una frequenza da cui è possibile ascoltare l’audio del film. Proprio come accadeva nelle estati del ’58.
Finzione nella finzione. Perché? “Il cinema racchiude tanti segreti emozionali. In pochi riconoscono che prendere l’auto e scegliere un multisala è diventato ingombrante. Paura di attacchi terroristici tra un popcorn e l’altro, senso di disorientamento, panico in mezzo alla folla e alle orde di film in 3D. C’è chi preferisce un drive-in classico, come il nostro; pur sempre una gabbia, ma rassicurante. Il film lo sceglie il cliente, così come l’orario. Come quando hai bisogno della tua stanza dei giochi. Chiami e noi pensiamo ad allestirla. Perché scegliere di tornare indietro nel tempo? Il drive-in rappresenta, allo stesso tempo, la rivoluzione sessuale e il primo approdo alla privacy in un luogo collettivo”. Chi ha vissuto un trauma, in una metropoli come New York, non cerca spazi concettuali né spiritose parodie. Cerca un cinema che lo porti per mano al momento “prima del trauma”. E così, un sieropositivo tollera pellicole dedicate a temi come Aids e droga solo in quella dimensione; una madre lascia in farmacia il Ritalin e può portare i figli a vedere un fantasy; una matricola dell’università che soffre di impotenza osserva tutto uno spartito di pornografia in attesa che la Ford Falcon si infiammi.
Finti drive-in che salvano la vita. Sale kitsch pronte a far sentire meno stranieri gli abitanti di una Torre d’Avorio ormai decomposta, colonizzata da paranoia e psicosi. Bastano 75 dollari e per un pomeriggio intero i fratelli Hall e Ben, nascosti dietro una tendina nera, proiettano sul muro gli alieni che portiamo in corpo. Quasi a ricreare i “luoghi domestici della parola” di Fight Club, in cui tossicodipendenti e alcolisti se la vedono con il loro doppio in celluloide. Mentre la parte in giacca e cravatta combatte fuori dal drive-in, coi connazionali che il cinema non lo cercano. E nemmeno lo sognano più.