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LA RISPOSTA ALLA DOMANDA È 42
MUSIC

Lord Bean intervista Good Old Boys



Quando mi è stato chiesto di fare queste domande ai Good Old Boys per Gold, ho pensato subito a quello che gli avrei chiesto, sopratutto per soddisfare alcune curiosità personali.
Li conosco da quando ero un pischello neppure maggiorenne e ho avuto occasione di discutere a fondo con Masito di writing e di tag, anche scannandoci per questioni di gusti a volte (!), con Kaos e con Danno, di metriche, rapper semisconosciuti che noi adoravamo, dei contenuti da evitare e da inserire nei testi futuri, e naturalmente di mc incapaci che poi sono la linfa di metà del repertorio rap.
Alcune delle frasi che mi dicevano le avrei volute leggere in un’intervista, mi rendevo conto di essere stato fortunato a sentire in prima persona le loro storie.
Sono sempre stato affascinato dalla loro costanza e dalla loro motivazione nel continuare a fare rap, anche in periodi meno rosei di questo, essendo stato più volte tentato dall’allontanarmene a mia volta; mi sono spesso chiesto dove trovassero ancora questa forza.
Poi, li ho visti dal vivo e l’ho capito: la risposta è nelle facce del pubblico di questo super gruppo che ad ogni concerto riempie i locali di gente entusiasta di due generazioni ormai, che canta i loro pezzi a memoria ed è affamata di quella musica fatta col cuore e con l’energia che me ne fece innamorare ai tempi; e credo che la cosa sia inequivocabile.

Mi tolgo subito di torno il momento “back in the days”: la prima collaborazione Colle/Kaos risale all’album Odio Pieno, nel 1996, e si è sempre percepito un rispetto reciproco fra di voi.
Eppure in passato sul palco del Rome Zoo o di Zona Dopa ci trovavi gente molto diversa e con stili ben connotati.
C’era competizione, ognuno difendeva la propria appartenenza, la propria gente e la propria città, cose che probabilmente sono state sostituite da altre più importanti, e guarda caso oggi troviamo un gruppo come Good Old Boys, che porta sul palco uno show come pochi, per spessore, storia ed esperienza.
Ovviamente dai tempi di “Ciao Ciao” siete cambiati non solo voi, ma anche la gente che stava con voi sul palco, e tutta la scena che vi sta attorno, in cui vi muovevate da pioneri all’epoca.
Alla luce di questo, vi sentite in qualche modo dei “sopravvissuti”? 

MASITO: Più che un sopravvissuto mi sento un reduce di guerra, porto addosso i segni del tempo che sono la mia debolezza e la mia forza allo stesso tempo.
Sono passati parecchi anni dal mio inizio ed è normale che tutto cambia dato che anche io sono cambiato, vivo questo periodo con lucidità e ho voglia come non mai di mettere la mia firma sul muro, di esserci e di dare il meglio.

BARO: Mi sento testimone di un periodo, ho visto e vissuto gli anni 90 ed ora sto vivendo un periodo che seppur travagliato , merita di essere vissuto in pieno.
Nella speranza e convinzione che se si agisce con consapevolezza si può fare del bene.
Musicalmente e umanamente.

DANNO: Sopravvissuti significa che siamo scampati al pericolo e che ora è tutto finito, invece noi siamo ancora in gioco, anzi, ancora in guerra e non abbiamo nessuna voglia di deporre le armi o di smettere di credere in quello che facciamo.
A volte più che un sopravvissuto mi sento un estraneo nel mio ambiente, soprattutto in mezzo a quella gente che ne fa solo una questione di business e di numeri.
Il business è sacrosanto, tutti dobbiamo mangiare e poter campare con quello che facciamo visto che lo facciamo bene, ma se riduci tutto solo a questo, se tutto diventa solo chi fa più numeri allora non mi interessa, mi sono innamorato del rap perché era pieno di parole e quelle parole a modo loro erano e sono poesia, che è una cosa leggerissima che non si può toccare o quantificare e c’entra poco con i numeri delle classifiche…

KAOS: Non saprei… dovrei prima sopravvivere a sta roba, e non è detto che ci riesca.
Però anche sì, sono sopravvissuto a un sacco di cose, sono sopravvissuto a me stesso, in qualche modo sono diventato tenace.
Potrei addirittura farcela, il che non vuol dire che poi non debba sopravvivere a qualcos’altro. Io e gli altri siamo passati attraverso innumerevoli cambiamenti.
Tutto il mondo è cambiato intorno a noi.
Siamo ancora qui.
Ancora con lo stesso rispetto reciproco, la stessa stima, lo stesso amore e la stessa fiducia.
Per quanto mi riguarda, so per certo che questa esperienza con i GOB è qualcosa che mi ha arricchito e a cui sono fiero di appartenere.

Come vi sentite a fare dei pezzi che hanno più di quindici anni? Siete consapevoli di aver scritto dei classici? Sentite ancora vostre quelle parole o avete l’impressione che le abbia scritte qualcun altro?

KAOS: Ho sempre considerato il tempo un giudice imparziale.
Vedere i figli dei miei coetanei oggi, che ascoltano e apprezzano la nostra musica mi stranisce un po’, ma mi rende anche consapevole di aver lasciato qualcosa che ancora non è scomparso.
È molto più di quanto abbia mai sperato.

DANNO: La cosa che mi stupisce di più è che sotto al palco ci sono tantissimi ragazzini che cantano i nostri pezzi e spesso sono pezzi usciti quando erano appena nati.
Certe volte lo capisci dopo il senso e il valore di quello che hai scritto, e gli stessi pezzi a modo loro cambiamo nel tempo.
Eppure dopo tutti questi anni ancora mi ci riconosco abbastanza nei nostri testi.
Se riascolto, chessò, un pezzo da battaglia come “Toro Scatenato”, il primo pensiero è che forse non sono più così, non mi interessa più quell’attitudine coatta e aggressiva, ora preferisco scrivere altre cose, ma comunque in quel pezzo ci sono io, è Danno di quindici anni fa, fa parte di tutto il percorso che mi ha portato fino a qui e ne vado fiero.

MASITO: È strano suonare dal vivo canzoni che hanno ormai diciotto anni, a volte più dell’età del nostro pubblico.
Certe canzoni sono ormai di dominio pubblico e quando le facciamo dal vivo sentiamo l’energia e l’amore della gente, le cantiamo insieme a loro e l’atmosfera che si crea ripaga di ogni sbattimento o scoramento.
Mi stupisco di aver scritto certe cose da giovane, non avevo neanche diciotto anni e certi concetti sono secondo me ancora attuali, non mi pesa farle dal vivo e mi rende fiero ogni volta che le canto.

Anche se l’Italia ha sempre avuto fama dell’ultima arrivata, siamo riusciti nostro malgrado ad avere una certa storia alle spalle, anche nell’hip hop.
Ciascuno di voi potrebbe farmi tre nomi di gruppi/artisti italiani importanti per voi, o che vi hanno influenzato a tal punto che senza di loro non sareste gli stessi ora?

CRAIM: Ero veramente piccolissimo quando ho cominciato ad ascoltare il rap grazie a mio fratello, quindi assimilavo e imparavo a memoria praticamente tutto quello che ascoltavo senza nessun tipo di distinguo o filtro.
Ho ascoltato veramente ogni roba uscita in quegli anni, dovrei dirteli tutti.
Preferisco invece farti qualche nome di DJ che ascoltando sui dischi e guardando in tv mi hanno insegnato quasi tutte le basi: Alien Army (DJ Skizo, DJ Gruff, DJ Stile, DJ Double s, DJ Tayone, DJ Inesha, DJ Zak), DJ Jay Kay e DJ IceOne.
Per le battles poi è un altro discorso.

MASITO: L’ispirazione che certi artisti ci hanno dato ci ha cambiato la vita e cerchiamo da sempre di restituire le stesse emozioni al pubblico con gli interessi.
Nel rap italiano cito assolutamente Sangue Misto, DeeMo e Lou X, senza i quali non avrei saputo che direzione prendere, sono stati essenziali per la mia formazione e nel mio cuore sono sempre il top.
Nella musica in generale devo molto a Lucio Dalla, lo ascolto da quando ero bambino e il suo modo di comporre i testi e fare metafore è di grande ispirazione per il mio stile.
Certe cose restano per sempre e quando scrivo un testo nuovo cerco ogni volta di non sprecare neanche una sillaba, imparando sempre cose nuove da tutto quello che mi circonda.

BARO: Sangue Misto, Kaos, Ice One, Dj Stile.

DANNO: Se devo proprio dire i tre nomi che hanno fatto scattare la scintilla allora dico Isola Posse All Stars/Sangue Misto, Assalti Frontali e Ice One.
I primi due mi hanno sicuramente influenzato tantissimo a livello musicale, di testi e di attitudine. Ice One mi ha dato ancora di più.
Senza Ice One sicuramente la nostra storia sarebbe stata diversa, lui più di tutti gli altri ha avuto un impatto sulla nostra vita non solo a livello musicale ma anche umano e personale.
Ice One ci ha fatto crescere ed è stato grazie a lui se io e Masito siamo passati dal rappare in cameretta a registrare pezzi su bobine già nel 94 e insieme abbiamo creato due dischi che ancora oggi hanno il loro peso.

Avete sempre dato tutti l’impressione di essere molto determinati a perseguire le vostre convinzioni sia a livello musicale, che a livello di diffusione della vostra musica.
Quanto è contato e quanto conta il giudizio degli “addetti ai lavori” (ammesso che ce ne siano in questo campo) e quanto ha influito quello del vostro pubblico?

MASITO: Cerchiamo da sempre di dare una direzione a tutto quello che facciamo e ogni nuova esperienza che ci viene proposta la esaminiamo a fondo.
Non vogliamo stare ovunque ma scegliamo continuamente quello che per noi va bene e quello che non va.
Il giudizio che ci interessa è quello dei nostri amici più vicini e quello degli addetti ai lavori ma spesso ci troviamo, come nel caso del nostro ultimo singolo “Sergio Leone”, a percorrere strade nuove e a “rischiare”.
Sappiamo quello che vogliamo e dopo aver ascoltato tutti, il nostro è il parere che conta, dato che la musica per me è la ricerca di se stessi e chi sta fermo fa le ragnatele.

BARO: Il giudizio degli amici è quello che conta.
Sono loro che ti dicono se fai bene o fai male.
Gli addetti ai lavori molto spesso sono in competizione con te e quindi non dicono la verità.
Il pubblico ti vuole bene e spesso non è del tutto oggettivo.

KAOS: Entrambi molto poco.
Se poi gli addetti ai lavori son quelli che scrivono i libri sulla storia dell’hip hop in Italia, o quelli che compilano le classifiche dei 10 pezzi rap migliori di sempre, assolutamente no, non è un giudizio che mi tocca minimamente.
Sono felice se a qualcuno piace quello che faccio ovviamente.
Dalle critiche cerco di trarne insegnamenti.
Ma difficilmente riescono a influenzare le mie decisioni.

DANNO La cosa più importante è che quello che facciamo piaccia per prima cosa a noi stessi e ci soddisfi, poi se piace anche a critica e pubblico meglio, ma il punto di partenza siamo noi, anche perchè i critici vanno e vengono, e il pubblico cambia negli anni. Se hai seguito la tua strada in modo onesto si sente alla fine, e forse paga più di quello che gli altri ti vogliono far credere…

Avrete sicuramente ricevuto proposte da etichette e major piuttosto grosse durante questi anni.
Conoscendovi penso abbiate preferito proseguire con le vostre gambe, probabilmente per non sentirvi dire che cosa fare, o semplicemente perché in fondo non conviene che qualcuno guadagni su quello che avete costruito da soli.
Come stanno realmente le cose?
Voglio dire, vorreste che la vostra musica venisse spinta di più da una struttura più grande, o la gente che vuole raggiungervi lo sa già fare senza bisogno di ulteriore pubblicità?

CRAIM: A me non mi ha mai chiamato nessuno.

MASITO: Abbiamo avuto le nostre esperienze con le case discografiche e se dovessimo trovare un accordo potremmo anche firmare un contratto, ma non vogliamo vincoli sulla nostra musica.
L’autoproduzione è un lavoro faticoso e lungo, e per noi è stata un’esigenza più che una scelta dato che le case discografiche con cui abbiamo parlato non hanno soddisfatto le nostre richieste.
Siamo la prova che comunque si può fare bene anche da soli, magari con un range di pubblico minore ma costruendo come artigiani il proprio disco e mantenendo la dignità.

DANNO: Quello che mi interessa è l’indipendenza a livello creativo.
Voglio essere padrone delle mie idee e delle mie canzoni.
Certo avere una struttura che ti spinge e ti finanzia è sempre una svolta, ma se il prezzo da pagare è troppo alto… se poi devo diventare un burattino in mano a questa gente che pettina e veste gli artisti secondo la moda del momento allora preferisco rimanere autoprodotto e scegliermi da solo i vestiti e le basi su cui fare rap…

KAOS: Io non ho ricevuto mai nessuna proposta per cui non ti so dire.
Però sono felice di non appartenere a certi ingranaggi del music biz.

Personalmente non mi sono mai piaciuti i critici del rap, le recensioni dei dischi che si addentrano nei giudizi tecnici.
Una strofa di rap racchiude in 16 barre l’espressione di un contenuto attraverso un’abilità metrica e l’utilizzo delle parole come uno strumento vero e proprio; forse erroneamente, ho sempre pensato che per comprendere appieno di cosa si tratta, fosse necessario almeno aver provato a scriverne una.
Molti musicisti, anche di mentalità apertissima, sembra non riescano a cogliere questo aspetto, e certi pezzi di rapper molto bravi sembrano più popolari per il loro ritornello, magari cantato, anziché per l’essenza del genere che sta nel rap stesso.
Cosa deve prevalere per voi in un pezzo, e cosa identifica un bravo mc e chi dovrebbe poterlo giudicare?

MASITO: In Italia il rap non è concepito come musica e i critici musicali, del settore e non, spesso ridicolizzano gli artisti e mortificano i contenuti dei testi con recensioni cariche di rabbia.
Sinceramente non leggo mai le recensioni dei dischi e mi faccio la mia opinione ascoltando semplicemente le canzoni.
A volte il viaggio di un rapper non è comprensibile da tutti e il contenuto della strofa viene frainteso o non capito pienamente, ci si affeziona a un pezzo solo per il ritornello che magari è anche più semplice da capire.
È strano che pochi, sia nelle interviste che dal vivo, mi chiedono spiegazione sulle rime, sarebbe semplice e molto più interessante conversare sui contenuti piuttosto che su tutto quello che ruota attorno.
Un bravo rapper secondo me è quello che ti fa riflettere e muovere la testa allo stesso tempo; che i critici musicali scrivano quello che vogliono, quando una cosa bella funziona ed entra nel cuore della gente le loro parole non contano nulla.

DANNO: Chiunque può giudicare quello che vuole, anche se mi piacerebbe che a giudicare fosse qualcuno che “ne sa”, perchè oggi internet dà voce a tutti, compresi quelli che non sanno nulla ma parlano lo stesso, probabilmente per sfogare qualche complesso che si portano dentro.
Non esiste una regola nella musica, un pezzo ti può colpire per la base, per il ritornello, per le rime, per l’intensità di chi lo canta o lo rappa o anche solo per uno scratch.
Per fortuna non esistono formule certe.
Quando cominci a muovere la testa e ti viene voglia di rimettere indietro il pezzo, e rimetterlo, e rimetterlo e ogni volta alzi un po di più il volume… allora quel pezzo è il pezzo giusto per te.

CRAIM: Non so cosa debba prevalere o meno in un pezzo per funzionare (credo che in pochi lo sappiano) ma mi pare che i più ci provino seguendo schemi pop o esempi di cose che hanno già funzionato.
La verità è che poi le canzoni che funzionano davvero sono quelle fuori dagli schemi a cui l’orecchio è solitamente abituato.
Credo che un MC sia bravo e una canzone sia ben fatta, se dopo un ascolto ti fa venire voglia di riascoltarlo/a e se sopravvive all’unico giudice sopra le parti che è il tempo.

In “The Art of Rap” Dr. Dre parla di distinzione fra rapper e MC.
Un rapper scrive delle rime, e in un certo senso tutti sono buoni a farlo.
Un MC è il maestro di cerimonia che sa tenere un palco, scrivere un pezzo con un capo e una coda, con un ritornello ed un tiro che coinvolge chi lo ascolta, e sa interagire con la produzione.
Siete d’accordo con queste definizioni?

MASITO: Sono d’accordo con Dre e mi sono sempre definito un rapper ma non è vero che chiunque può scrivere rap, ci vuole personalità per farlo e ci vuole stile.
Si può essere comunque entrambe le cose nello stesso tempo dato che il rap oltre che di contenuto vero e proprio si nutre di enfasi e carisma.
Il carattere dell’MC interagisce con il pubblico e rende il live di un gruppo un viaggio mistico con scambi di energia tra palco e platea.

DANNO: Anche io sono daccordo, l’MC secondo me è una figura strettamente legata alla dimensione live della musica, è sul palco che un MC fomenta e intrattiene la gente, ed è un ruolo importante, spesso sottovalutato.
Sono tantissimi i bravi rappers, pochi i veri MC. Penso ad Esa e a gente come lui che sul palco dà tutto e mantiene sempre vivo il legame con chi sta sotto ad ascoltare, rompe le barriere fra “artista” e “pubblico” e trasforma un concerto in una esperienza più coinvolgente.

Secondo voi cosa serve all’hip hop perché acquisisca agli occhi di tutti la dignità di altri generi musicali come il jazz, o il rock?

KAOS: Mentre negli altri generi si usa la parola “canzone”, quasi mai usiamo questo termine per il rap.
È molto più comune sentire parlare di “pezzo rap”.
Probabilmente perché è più congeniale identificare questo genere come una musica che effettivamente è fatta da artisti giovani e rivolta a un pubblico giovane.
Ma ormai è quasi metà secolo che questa cosa è in giro e c’è una parte considerevole di artisti (ma anche di sostenitori) che ha superato abbondantemente i 30.
Credo che questi artisti abbiano maturato abbastanza esperienze e abbiano più storie da raccontare dei teenagers confezionati su misura dalle major.
Non ho visto “The Art of Rap” (ma a parte che Dre si fa scrivere i testi da D.O.C.) esiste anche la figura di Lyricist, che secondo me è una figura diversa, sia dal rapper che dall’mc.
È colui che porta il livello di scrittura delle rime a un livello più alto.
Una differenza simile a quella che può passare tra un giornalista e un romanziere.

CRAIM: Se la passione che ha travolto questa generazione è reale, entrerà da sola a far parte della cultura delle prossime generazioni di questo paese.
Se invece in una classifica delle 10 migliori canzoni Rap italiane di sempre riesci ad escludere “Aspettando il sole”, vuol dire che sei in malafede e che la strada è ancora lunga.

MASITO: Manca la credibilità secondo me, arrivati a una certa età si smette di ascoltare rap e quasi ci si vergogna di averlo mai fatto.
Il ricambio sotto il palco è velocissimo e ti ritrovi sempre nuovi giovanissimi a rimpiazzare le fila.
L’hip hop si nutre di gente nuova e nuovi fenomeni del momento continuamente da quarant’anni e il rap non sarà mai un genere come gli altri finchè chi lo fa non diventerà un musicista vero e proprio, non solo quando chiede un cachet.
Bisogna secondo me elevare il livello e portare sul palco uno spettacolo, magari come noi, unendo le forze e provando in studio gli show.

BARO: Non serve qualcosa in particolare a livello musicale.
Probabilmente tutto è stato già provato, ogni tipo di fusione, ogni tipo di collaborazione.
L’hip hop recupererà la propria dignità con il tempo.
Quando si affievolirà la luce dei riflettori che da molto tempo ormai segue da vicino il percorso di questa cultura, probabilmente si ritornerà a riscoprirne i veri valori.

DANNO: Ormai il Rap è forse la musica più diffusa soprattutto fra i pischelli, ma non solo, ha una influenza a livello culturale enorme, basta vedere come gli altri generi (quelli che hanno conquistato da tempo la “dignità”) ne siano influenzati e sono sempre più ricchi di spunti di chiara matrice “Hip Hop”.
Per chi segue veramente questo genere ed è alla ricerca di dischi la dignità c’è già.
Per chi ascolta superficialmente la musica non lo so, ma non penso che gli ascoltatori “casuali” si pongano problemi di questo tipo…

Ultimamente vedere il reparto “rap italiano” in un mediastore così pieno di roba mi ha quasi impressionato.
Oggi fare hip hop può essere considerato un mestiere.
Le etichette sono interessate a produrre sempre più dischi, tutti ora sanno cos’è questa musica, l’hanno metabolizzata, e alcuni rapper che una volta erano underground ora sono conosciuti quanto artisti pop famosissimi.
Una specie di momento simile c’era già stato a metà anni novanta, ma non di questa entità. Può essere che molti dei “giovani prodigi” di oggi probabilmente verranno scaricati non appena l’attenzione scenderà di nuovo.
Secondo voi è così? O si è creato un vero e proprio settore longevo come negli States, ma solo col nostro proverbiale ritardo?

KAOS: In Italia ogni settore è controllato da lobbies e cartelli, il settore della musica non fa differenza.
Fanno loro le regole.

MASITO: La massa che oggi ascolta il rap e determina il successo dei rapper commerciali ieri ascoltava Ramazzotti, la Pausini ecc. e sono cresciuti nelle discoteche, quindi non è un pubblico che sa cosa sta ascoltando, non si può certo parlare di cultura Black.
Agli Italiani piacciono i rapper e non il genere che ascoltano, venerano il successo e il potere che il rapper rappresenta, non hanno scelto questa musica come noi, ma se la sono ritrovata sotto il naso, spinta con ogni mezzo e spammata ovunque.

CRAIM: I giovani prodigi verrano scaricati dalle major non appena chi li ascolta li scaricherà, ma questo succede a qualunque “artista” che lavora sotto un’etichetta: se non vendi più, non lavori più.
A me sembra di essere dentro ad una corrente in cui c’è ancora una forte componente di fanatismo piuttosto che una presa di coscienza di cos’è veramente questo genere.
Chi sopravvive all’andamento delle mode credo dipenda sempre dalla qualità della musica che ha fatto e continua a fare.

BARO: Solo in futuro lo scopriremo.
Sicuramente questa nuova ondata è favorita ad un appiattimento culturale generale nel mondo, e in questo, guarda caso, l’Italia non è assolutamente in ritardo.
Quello che troviamo nei negozi, non è l’hip hop degli anni ’90, quindi non farei un paragone in questo senso. Tanta roba non equivale a dire qualità, quindi longevità.

DANNO: Anche io sono convinto che solo col tempo capiremo quanto è solida questa nuova esplosione del rap italiano o se è un’altra bolla destinata a implodere.
Dipenderà molto dagli artisti e da cosa saranno capaci di produrre e anche dai media, da come proporranno al pubblico questo genere.
Quando si parla degli anni 90 o dell’inizio del 2000 nel rap italiano si punta sempre il dito sull’immaturità della scena, io invece vorrei ricordare l’immaturità e l’idiozia di tutti i vari “giornalisti musicali” e dei media in generale.
Ora tutti parlano di Spit e a me viene da pensare che nel 2003 c’era già il 2theBeat, con un sacco di gente, ed era un evento grosso di cui parlava tutta la scena, con un livello di sfide in freestyle come poche volte si era sentito prima in Italia.
Chi mancava in quel periodo?
Noi?
No, noi c’eravamo, con le nostre rime e la nostra passione.
Mancava tutto il resto, la tv, le radio, la stampa musicale che non si filavano minimamente quello che stava succedendo in quel periodo nel rap italiano.
Ripeto, noi c’eravamo, erano loro gli assenti.

Le sessions di Baro e Craim durante i vostri concerti sono davvero assassine, la parola “DJ” è forse riduttiva in questi casi.
Avete una tale padronanza che potrei dire di stare osservando dei veri e propri musicisti.
Appartenete comunque a due generazioni diverse, che lo vogliate o no!
Quanto avete imparato l’uno dall’altro?

KAOS: Baro e Craim sono due garanzie. Stare sul palco sapendo che ci sono loro dietro mi dà un senso di sicurezza assoluto.

Craim: La scuola dei DJ in Italia è sempre stata potentissima fin dagli inizi e secondo me questo è un segno che in qualche modo una parte dell’hip hop ha attecchito nella nostra cultura.
I primi gruppi di questo genere negli USA mettevano addirittura prima il nome del DJ di quello di chi cantava, ed io giudico molto un MC da chi ha dietro ai piatti. Uno che sa tenere il microfono in mano lo sa bene quanto si alza di livello il proprio live e quanto può stare tranquillo a seconda di chi ha dietro a mettergli i beat o a fare cutting e scratch.
Se ci sono DJ forti in giro adesso, è perché ce ne sono stati di fortissimi all’inizio, e Baro è sicuramente fra questi.
Prima che diventassimo amici ero ovviamente un suo fan, è sempre stato uno di quelli con lo stile selvaggio come piace a me. Oltre ad essere il DJ del Colle da quasi 15 anni, gli ho sempre visto fare dei dj set incredibili senza prepararsi praticamente nulla, ma decidendo i pezzi da passare a seconda della situazione, che è proprio cosa dovrebbe essere il DJ secondo me.
Lui sicuramente lo è. Mi diverto e fomento ogni volta che lo sento suonare o che divido il palco con lui, e cerco di assorbire l’energia in un certo senso. Certe robe per me non s’imparano.
Da me invece credo abbia imparato a fumare sigarette durante i live, quello si può insegnare e imparare.

BARO: Amicizia a parte, la presenza di Craim mi ha dato nuova linfa.
Quando la luce che hai dentro tende ad opacizzarsi per vari motivi, uno più giovane e più bravo di te può farti ritrovare la giusta via.
Neanche a dirlo, è super facile intendersi con Craim sul palco, lì dove io arrivo con l’esperienza lui ci arriva con intuito e talento.

Quanto durerà il progetto Good Old Boys?
Rimarrà solo nella sua forma live o potrebbe diventare un album?

MASITO: Stiamo lavorando al concept di un paio di pezzi Good Old Boys che probabilmente usciranno in vinile dopo l’uscita del nuovo disco Colle.
Per quel che mi riguarda questa unione non finirà mai, i Good Old Boys sono super villains e non possono essere sconfitti.

DANNO: Stiamo pensando a un paio di robe su disco targate Good Old Boys, al momento consolidiamo la nostra amicizia e la nostra fratellanza raccontando insieme la nostra storia sui palchi, ma non è da escludersi che il progetto diventi qualcosa di più…

KAOS: Io spero che Good Old Boys riesca, nonostante le difficoltà logistiche a lasciare una traccia tangibile, oltre ai live che hanno riscosso un enorme e assolutamente inaspettato successo.

CRAIM: Diventerà un film.

Quando anche a Dj Craim cresceranno i peli sul petto, chi farà la parte del giovane?

KAOS: Con lo stile di vita che conduce, tra pochi anni ci raggiunge.

DANNO: Craim per quello che so io, ha fatto la depilazione col laser quindi il problema non si pone, i Good Old Boys sono salvi.