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Il writing fra chiese e quartieri



All’indomani della sbiancante boiata fatta ai danni di “5 Pointz”, la mecca dei graffiti del Queens, mi è venuta voglia di celebrare in qualche modo l’arte del writing, con una sorta di ricordo e riflessione, seppur alcuni segnali proprio come la demolizione del quartiere newyorkese a favore di una serie di condomini di lusso, faccia pensare che non ci sia un futuro fiorente per questo tipo di creatività e che il bianco risulta essere ancora oggi meglio del colore e della fantasia.

Tuttavia non resta che parlare dei progressi piuttosto che dei fallimenti (dettati dall’esterno) di un’arte considerata ancora da molti vandalismo. La street art fatta di stencil, pennelli, grandi rulli, megaposter e mattoncini colorati, anch’essa, seppur ritragga elementi più “giustificabili”, seppur ancora da molti di incomprensibile significato, trova le sue difficoltà nella sua espressione e diffusione e praticamente in ogni angolo della terra; basti pensare al termine dei una delle ultime opere di Bansky, costretto ad ottobre, dopo tanti tentativi, a bloccare, a causa dei continui blitz della polizia, la sua opera “Better Out Than In”, che prevedeva la produzione di un’opera al giorno in un quartiere diverso di New York. Dunque il tutto risulta essere nient’altro che una questione di controllo, di permessi, di “non lo puoi fare perché il muro non è tuo” e tutte le autorità contrastanti continuano ad aggrapparsi alla scusa più banale, frustrante e meno veritiera mai espressa: «Questa non è un’arte; sono solo dei vandali che imbrattano muri». Tanto che alcuni di quei vandali hanno esposto le proprie opere in molte mostre d’arte contemporanea in tutto il mondo.

A questo proposito mi preme ricordare il writer italiano Eron, il quale ha dipinto per la prima volta nella storia, con regolare permesso, una chiesa cattolica in stile street art, e guarda caso, perché di un caso si tratta, in Italia. Un angelico e sereno cielo blu dipinto sulla navata di una chiesa di San Martino in Riparotta, Rimini: questà è  l’opera del writer italiano fortemente voluta dal parroco Don Danilo Manduchi, che riprende in maniera semplice e minimale il concetto di universalità del linguaggio visivo, richiamando l’innata espressione artistica e comunicativa insita nell’animo umano. Si, è stato proprio un prete a pronunciare questo concetto, che in altri modi e attraverso altri strumenti è quello che ogni writer (non parlo di quello che scrivono “Maria ti amo” o “ti prego perdonami” sui muri) ha sempre voluto esprimere attraverso i propri pezzi, di qualsiasi tipo.

 

 

«Per la prima volta nella storia, la street art, entra nel tempio dove l’Arte supera i tempi nei secoli dei secoli. La chiesa. La “consacrazione” di un’arte che fino ad oggi è stata oggetto di un “pregiudizio universale”». Queste sono parole del pluripremiato Davide Eron Salvadei, pioniere della street art italiana, che ha espresso il suo parere sulla propria opera. Eron dipinge sin dai primi anni ’90 e si è sempre distinto per l’aver inserito sin da subito elementi figurativi nei propri graffiti. E’ riuscito a farsi notare più volte e ad entrare, meritatamente e per sua fortuna, nel circuito artistico contemporaneo, arrivando a esporre le sue opere in tutto il mondo. Eron è uno dei vandali più accreditati dei nostri tempi. Tuttavia, come mai chi guarda e chi ha ideato l’opera nella chiesa di San Martino spontaneamente riesca a mettere da parte il fatto che prima di essere commissionato niente poco di meno che dalla Chiesa a dipingere una parete all’interno di uno dei suoi luoghi sacri, il writer italiano abbia “imbrattato” muri, treni e tutto ciò che ispirava la sua creatività, senza chiedere permesso a nessuno diventando uno street artist di livello mondiale? E’ difficile rispondere.

Ricordiamoci come e dove è nata la street art e perché il suo progredire è stato una fortuna: Il writing è una delle quattro discipline dell’hip hop, una forma creativa nata nei quartieri delle grandi città degradati e lasciati al loro destino. In quei casi molti ragazzi nascevano e vivevano in situazioni in cui il crimine minore era una rapina in un supermercato e dunque l’hip hop e, per rimanere in tema, il writing, era uni dei pochi modi di salvarsi. Le persone che hanno vissuto quest’arte in quei posti hanno dipinto luoghi in principio tristi per definizione, dove la povertà si sentiva sulla pelle e in cui il colore era sicuramente un’alternativa valida al griguime tipico delle grandi città. E figuriamoci se avrebbero dovuto chiedere permesso a qualcuno o se qualcuno avrebbe fatto qualcosa per scongiurare questo terribile crimine che è il writing: in questo modo molti ragazzi hanno espresso al meglio il loro lato creativo, lasciando da parte il lato criminale legato in qualche modo al loro stato sociale.

L’altalena che va dalla demolizione di 5 Pointz a New York all’opera di Eron nel piccolo paesino romagnolo è molto instabile e incoerente, così come le opinioni dei critici d’arte internazionali, anche se molti nostri contemporanei hanno ormai giustamente abbracciato la questione, la quale discussione può essere riassunta nel proprio punto focale, che rimane sempre “si può dipingere solo dove qualcuno dice di dipingere”, perché se fatto su una tela o su un palazzo autorizzato è un’opera d’arte, altrimenti è vandalismo.

L’incoerenza incombe, mentre l’espressione creativa, si sa, non ha ne tempo ne luogo; questo forzato binomio rimarrà sempre fino a quando ci sarà qualcuno che con una bomboletta e con un pennello colorerà criminosamente il mondo, regalando bronci e sorrisi allo stesso tempo.