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WhatsApp: presto chiamate vocali. Ma ce n’era bisogno?



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La notizia dell’acquisto da parte di Facebook della popolare applicazione WhatsApp per 19 miliardi di dollari ha fatto il giro del mondo. Fondato nel 2009 da Brian Acton, e Jan Koum, due ex membri di Yahoo, WhatsApp non ha propriamente rivoluzionato la messaggistica istantanea, ma di certo l’ha resa più pratica, leggera e stabile che mai. Fin da quando girano voci dell’acquisto da parte del social network (ancora) per eccellenza, gli utenti dell’app sono saliti a 465 milioni, incrementando di 15 milioni in una sola settimana.

Dopo il discusso down di pochi giorni fa, durato ben 4 ore e giustificato come un problema tecnico col server, ecco la compagnia esprimere i suoi primi piani in collaborazione con FB, ovvero la possibilità di effettuare chiamate vocali: “Vogliamo aggiungere la voce così che la gente possa rimanere in contatto con amici e relativi senza limiti ovunque nel mondo” dice Jan Koum, uno dei fondatori.

Ora, cosa c’è di nuovo in tutto questo? Dopotutto Skype c’è da anni ed anni, come il concetto stesso di chat in generale: la differenza è che WhatsApp  non ha un alternativa desktop, non può essere come alternativa installato sul pc, sopravvive soltanto grazie al proprio smartphone, il proprio numero di cellulare e così facendo ha sistematicamente annientato il buon vecchio SMS.

Ora, dopo aver già dato per disperso il vintage Short Message Service, cosa ne pensa dunque la Wind, la 3, la Tim e Vodaphone e le migliaia di compagnia telefoniche mondiali di questa futura prospettiva?

In realtà immagino non molto, dato che verità è una: lo smartphone di phone ha poco, e le chiamate, se non in contesto lavorativo, si sono perse per strada, la voce è diventata un suono alieno, per nulla familiare, anzi cacofonico, in confronto al simpatico ‘dlin-dlin’ o ‘piri-pù’ delle suonerie ultrasoniche smart.

La gente non si chiama più: perché disturbare? l’altro potrebbe esser sotto la doccia, potrebbe essere alla guida, mentre le foto, gli smile, le virgole e gli spazi vuoti dicono già così tanto, esprimono il necessario. Per tutto il resto c’è Siri.

Torniamo tuttavia al contesto lavorativo, che è una nota interessante: se Skype ha una sua immensa qualità e potenzialità professionale, discutibilmente anche FB, WhatsApp invece è l’apoteosi del non professionale. Aldilà del nome, che se uno cerca di decifrarne l’assonanza con What’s Up si dovrebbe dare una sberla in testa, esiste il deviante orrore dell’aggiornamento automatico delle rubrica sull’App stessa, la visualizzazione di stati non richiesti, di foto utente che sfuggono l’umano, rilevando realtà al di fuori del contesto lavorativo a cui mai uno sarebbe voluto entrare.

Su WhatsApp ho l’immagine sorridente del mio meccanico. Ho lo stato con tanto di cuoricini della mia prof di storia dell’arte del Liceo. Tutto questo va bene in un mondo socialmente mirabolante, ma la verità che siamo sociali con circa 4 o 5 persone volontariamente, il resto… è la parte oscura del network, gruppi a cui non sappiamo chi ci ha aggiunto, inviti ad eventi di cui non capiamo nemmeno il titolo.

Chiamerò il mio meccanico su WhatsApp? No. Il mio collega? No, a meno che non ci siamo mandati negli ultimi mesi foto su foto di donnine nude. Chiamerò la tipa a cui ho chiesto di uscire che benché sappia che ha letto il mio messaggio esattamente 3 minuti fa non mi risponde? Forse.

Sinceramente, e qui non dico nulla di nuovo, il futuro sociale non è nel propagandare la nostra natura sociale ed interconnessa, ma piuttosto l’opposto, ricreando piccoli salotti privati di confidenze intime e personali. Messaggi che si leggono quando se ne ha tempo, quando se ne ha voglia. Registrazione che si ascoltano quanto ne abbiamo bisogno, quando la voce di nostri cari ci sembra più necessaria. Vivere non di ciò che viene detto ma quello che viene inteso, sognato, sperato.

Dunque che dire, quel salto di qualità con il chiamarci tutti allegramente è forse in, ma no, non necessario. Siamo già abbastanza ‘sociali’ evitandoci tutti.