«Il fascino di J Dilla», un parco, l’esperienza musicale di un gruppo e il gusto della sperimentazione di un’icona dell’hip hop italiano sono gli elementi che servono per forgiare un gioiello che amalgama beat, batteria, tastiera, basso e una voce inconfondibile che riporta ad un sapore di dopa.
I Med’Uza, eclettico trio composta da Nico Menci (alle tastiere), Michele Manzo (al basso) e Gaetano Alfonsi (alla batteria) e Dj Lugi escono oggi con un video con la regia di Matteo “Uzzi” Bombarda, che preannuncia un progetto innovativo, in cui la musica si concretizza, si aggroviglia alle persone trasformando in colore le frasi delle corde, mostrando la forma delle battute dei rullanti, facendo esplodere in linee i discorsi del giradischi.
Una rappresentazione di freschezza e allegria che si completa con il timbro vocale di Dj Lugi, che con le sue rime complesse dimostra la sua originale peculiarità nel saper far rimbalzare le parole da un significato all’altro.
“Alla Lontana” è la prima perla di una collana che nasce «dal fatto che dei jazzisti si sono innamorati dell’hip hop» come mi ha spiegato Dj Lugi.
Per capire come si creano queste fusioni musicali e sonore, ho parlato con Dj Lugi e Gaetano Alfonsi, che mi hanno spiegato le dinamiche di questo progetto e aneddoti di vita.
È un periodo di contaminazioni musicali. Il singolo “Alla Lontana” ha anticipato un po’ questa ondata di rinnovamento, mentre stavano per uscire l’Ep dei “Loop Therapy” e altri dischi rap con influenze blues e piccole realtà in cui jam session jazz e freestyle si miscelavano. Come può venire un’intuizione del genere? Il ruolo del parco è stato essenziale?
G: Direi che il ruolo del parco è stato fondamentale. Da lì è nato tutto. Dall’improvvisazione è nata questa idea qua di incidere qualcosa di più concreto. Viene tutto da lì. Da lì parte la nostra collaborazione, sotto il segno dell’improvvisazione.
L: Io aggiungo che abbiamo sperimentato un sacco, divertendoci. E questo divertimento ha portato a questa realizzazione…facendola breve.
Ma mi spiegate un po’ meglio questa cosa del parco? Cos’era? Una Jam?
G: Era una jam con famiglia e amici.
L: Poi c’eravamo noi con un ghettoblaster, Gaetano con la batteria e Salvatore col contrabasso…
Vi siete conosciuti lì?
G: No, ci conoscevamo già ma quello è stato un pretesto per suonare insieme. Lugi lo conoscevamo tutti chiaramente, perché siamo tutti dei suoi fan, sia come dj che come rapper. Il nostro background viene anche un po’ da lì. E poi siamo riusciti insomma a suonare al parco (ride).
Gaetano mi spiega il suo background che affonda le sue radici che sono partite «dal jazz in formazioni piccole oppure afro-beat, afro-funk, afro-cubano, hip hop…E poi con Lugi abbiamo cominciato un po’ a esplorare e mescolare questa cosa dei beat, dei loop». Continua dicendomi che «pur suonando jazz, il funk e il rap sono state sempre musiche che mi hanno appassionato». E dopo queste parole Lugi si concentra sulla nascita di questo progetto e sottolinea alcuni punti, dicendomi che «Come Med’Uza l’idea è partita da loro a prescindere dall’incontro con Lugi o meno. È chiaro che tra di noi ci si può stimolare a vicenda, ispirarsi. Però la questione Med’Uza io l’ho ascoltata ancor prima di decidere di fare il pezzo con loro. Dagli esempi di J Dilla, che ha affascinato tutti e tre, è nata quest’idea di fare delle strumentali risuonate. Per cui già con un’interpretazione diversa, però con la sapienza di musicisti come appunto questo trio, che di musica ne sa. A me personalmente vedere gente capace di suonare jazz, funk, afro-beat e affini e avvicinarsi a questa cosa spontaneamente mi ha convinto ancora di più. Non è stata una forzatura. Poi ho partecipato ad un loro live, riadattando dei miei testi, e da lì in avanti man mano che ci si vedeva (anche se poche volte) ho collaborato fino a che non è uscito questo pezzo».
La nascita di questa collaborazione è scevra da influenze oltreoceano?
G: Le nostre, almeno per me, provengono tutte dagli anni Settanta-Ottanta a livello musicale. A livello rap, il rap italiano per me è Lugi. Non lo dico perché è davanti a me, ma è lui che per me ha portato il rap in Italia. Quindi ci siamo fatti influenzare da lui. E gli ascolti che abbiamo fatto sono stati indirizzati, anche se non ci conoscevamo, da lui.
L: Chiaramente ognuno ha le sue influenze e le sue fonti di ispirazione. Però il punto cardine è partito dal fatto che dei jazzisti, dei musicisti si sono innamorati dell’hip hop. Un conto è progettare qualcosa che viene fatto altrove. Un conto è cercare, al di là se poi esca qualcosa o meno, un sound. Al parco, a casa, dove vuoi. Poi se è il sound a parlare per te è chiaro che ti vien voglia di registrarlo e condividerlo. Però prima di tutto c’è la voglia di fare e di divertirsi. Questo è essenziale.
Gaetano, una domanda per te alla quale però mi hai già risposto: che idea avevi del rap fino ad oggi e come è cambiata?
G: Guarda, due settimane fa ho incontrato per la prima volta di persona i Public Enemy e sono riuscito a farmi autografare un libro che avevo comprato a quattordici anni. Quindi, posso dirti che sono partito da loro. Mi è sempre piaciuto. Mi piace tutta la musica afro-americana. Penso non ci sia niente che non mi piaccia: dalla salsa newyorkese all’afro-beat.
Già dalla realizzazione del video mi pare che l’effetto visivo sia una parte importante nella presentazione di un prodotto. E lo stesso penso si rifletta sul palco. Qual è la vostra visione di live, premesso che venite da ambienti e/o generi musicali diversi?
L: Non posso ritenermi un paladino dell’aspetto. Sono come sono, però tengo in conto il fatto che coreografia e scenografia erano tutti aspetti che venivano tenuti in considerazione già alle origini dell’hip hop in quanto forma d’arte. Mi piacerebbe, dunque, poter spendere del tempo per curare questo. Però ci vuole energia, qualche idea e ci vuole del tempo. Io resto sempre un Mc part-time. Sono una persona normale che va a lavorare. Sono un vecchio fan dell’hip hop, che ha più anni degli altri.
Quindi che importanza dai all’aspetto?
L: Personalmente è una cosa che ho apprezzato quando avevo le mie prime esperienze visive del rap dagli Stati Uniti. Per cui era un aspetto che apprezzavo, ma che per me era forse troppo americano, troppo “Broadway”. La cultura americana sull’immagine, lo sai benissimo, valica anche questi confini. C’erano club hip hop in cui non si poteva entrare con le scarpe da tennis. A me quello che interessa è la sincerità. Se sei quello che suoni e quello che fai io lo avverto. I Roots insegnano a riguardo: “What they do”. Poi è chiaro che avere un proprio look fa parte della cultura hip hop.
E sull’aspetto di show?
L: Guarda, devo dire che sono un po’ carente a riguardo. Mi presento così come sono. Per quanto riguarda il video, l’immaginario già lo si toccava col testo. Il testo fornisce fotogrammi. Di fatto poi il video è una festa, di quelle che facciamo normalmente solo che è stato distribuito visivamente in una maniera che potesse rappresentare un’opera d’arte, nonché l’espressione di Undervilla.
Io lo trovo molto equilibrato. Solitamente credo che si tenda ad esagerare più l’aspetto visivo, magari tralasciando l’aspetto qualitativo a livello musicale.
L: Sì, abbiamo avuto un po’ di dritte da Uzzi (Matteo Bombarda), il regista. Però abbiamo girato un video che ci rappresenta per come siamo. Tu però hai aperto un paragrafo importante: molti curano l’immagine. Magari guardi un bel video ma il pezzo è carente. Questo mi piace poco. Come se adesso l’aspirazione fosse quella di apparire, non di contare o di essere. Questo però c’è sempre stato. Adesso è più totale, ma c’è sempre stato. Ed è errato.
Nel video, gli aspetti legati all’immagine sono frutto del lavoro e delle proposte (concordate con noi, anche se per sommi capi) di Undervilla. Undervilla ha fatto un gran lavoro di grafica e di ideazione nel passaggio da una fase a un’altra. È stata una sinergia tra Lugi, Med’Uza e Undervilla, che ha prodotto il video e interpretato il pezzo. Da noi c’è stata la richiesta di farlo, ma loro hanno avuto fotta nel volerlo produrre. C’è stato dunque un lavoro di ballotta, di gruppo.
Poi, su come siamo apparsi e come siamo il video ci rappresenta per lo più. Nel live mi piacerebbe curare di più l’immagine. Ma come ti ho detto prima sono abbastanza part-time come artista, per cui non ho il tempo, né l’energia.
Lugi, Via Popilia continua a ricorrere nei tuoi pezzi. È una parola per rievocare un discorso più ampio?
L: No, Via Popilia è il quartiere in cui ho passato buona parte della mia vita. Un quartiere popolare in cui ho cominciato a fare la mia musica con un forte senso di appartenenza. Un po’ come accade in tutti i quartieri popolari, il fatto di essere nella stessa barca con tutti quelli che erano lì, ha reso Via Popilia un grande villaggio. Da Via Popilia poi, qualche anno dopo, uscì anche la buonanima di Dj Marcio, il mio dj, e di Via Popilia ho parlato nei miei testi. Fa parte della mia educazione, della mia cultura, della mia esperienza. È qualcosa di cui posso parlare, perché l’ho vissuto.
Per dirti una chicca, una volta a inizio anni novanta vennero dei ragazzi in Erasmus ed erano del Bronx. Io ignoravo che il Bronx non fosse tutto uguale. C’era il North Bronx e il South Bronx. Loro erano del Nord. Quando sono venuti in Via Popilia ad ascoltare un po’ di hip hop a casa mia, delle robe che avevo non conoscevano niente. Tant’è che a un mio amico dissi: “Ma si sicuro ca chissi su i New York?” (Ride). Però una cosa posso dirtela: quando sono venuti a Via Popilia dissero: “Qui si respira l’aria di South Bronx”. Parole loro! Per cui c’è una similitudine in certi habitat popolari. Lo spirito dell’hip hop è molto vicino a certe realtà.
Gaetano, c’è un elemento che (come in una canzone può essere una parola) che suonando ricorre nei tuoi pezzi?
G: Snare e Kick. Quei due elementi lì. Se poi ti riferisci al mio modo di suonare, una cose delle più importanti per un musicista è quella di essere riconoscibile. Io non so se qualcuno mi riconosce da come suono lo strumento o dal suono dello strumento, però, insomma, cerco di dare qualcosa. Per dire, ogni parola può stare in tante frasi. Dipende da come la interpreti o dove la metti all’interno della frase. Forse qualcuno riconosce come suono, ma sono ancora lontano da questo, ahimè! Dico “Ahimè” perché essere riconoscibile è un gran pregio secondo me.
Questo progetto qui sarà un album?
G: Sì, sta per uscire. “Alla Lontana” è un singolo dell’album.
E continuerete a collaborare? O questa è una collaborazione momentanea?
G: No no, continueremo! Come è nata sta crescendo e proseguendo. Non è nata per collaborare al singolo, e nemmeno finirà con questa collaborazione avvenuta in occasione di “Alla Lontana”.
Quindi questo album è stato più una sfida con voi stessi per il grado di complessità del progetto, o è stato più un processo naturale?
G: Non credo sia stata una sfida con noi stessi. È stato bello, nel senso che all’inizio l’idea non era quella di fare un disco e poi man mano ci siamo invece accorti che c’era del materiale interessante per fare un disco. E quindi siamo andati avanti, con calma. C’è stato anche l’aiuto di Duna. Dentro ci sono autoproduzioni, collaborazioni di amici… Dentro ci sono altri musicisti e sono venuti tutti a dare il loro supporto gratuitamente, proprio per l’idea che c’era dietro. Quindi, più che una sfida è una crescita di questo progetto qui, che è molto ampio e trascende anche Med’Uza in sé. Med’Uza c’è perché ci sono altri gruppi, perché suoniamo tutti anche in altre situazioni, perché c’è Lugi, perché ogni giovedì in un locale di Bologna, Lugi propone nuovi gruppi sempre diversi. Insomma siamo un po’ una famiglia di venti persone circa.
Lugi, una volta in un’intervista hai detto: “Mi sono avvicinato al rap come danza del lessico”. Puoi approfondirmi questa metafora?
L: Se vuoi il rapper è un po’ un professionista di sillabe. Io guardo molto al lato ritmico della cosa, anche perché nel contenuto ho appreso il rap come strumento musicale, percussivo. Il rap è una danza, dunque. Anche quando fai dei passi, per collegarsi da un passo all’altro bisogna arrivarci in un certo modo. Questo è il senso.
Credete che questa unione tra jazz, funk, soul e rap ponga comunque quest’ultimo (cioè il rap) sotto una luce diversa? Riuscirà ad essere visto come una valorizzazione del genere musicale stesso o pensate che rimarrà di nicchia, alla luce anche di questo discorso appena fatto?
L: Speriamo che arrivi a più persone possibili. Però devo dire che noi ci sentiamo già realizzati perché abbiamo fatto qualcosa che ci piace e che ci piace divulgare e condividere. Però io sono convinto che se fossimo stati sotto un’etichetta italiana legata al rap non so quanto questo discorso potesse essere portato avanti con questa libertà di espressione. Non lo so. Io credo che ora influiscano molto. D’altronde lo fanno negli Stati Uniti, figurati qua!
G: In realtà il discorso delle “nicchie” vale un po’ per tutti i generi musicali. Il genere di nicchia è un genere che ha bisogno di un ascolto molto più attento, più preparato. Chiaramente quello che passa se tu accendi la radio è diverso e la musica è quella che è. Non dico che è brutta o bella, ma è quella lì. Non ha bisogno di niente, perché la puoi sentire ovunque. Noi siamo fortunati che non siamo obbligati a fare nulla. Lo facciamo perché ci piace. Quindi incontriamo gente che la pensa come noi. Anche per il prodotto in questione, il video, o il disco, tutti quelli che hanno collaborato, non hanno pensato a quanti dischi venderemo o a quante persone vedranno il video. A noi piace quello che abbiamo fatto, e dunque lo condivideremo con chi apprezzerà questo lavoro. Poi, a più gente arriva e meglio è, ma questo può essere un discorso valido per tutti i generi. Anche il metal è di nicchia, anche il jazz è di nicchia, anche il funk è di nicchia. Non è musica commerciale, nel senso di “musica di massa”.
Quali saranno le conseguenze del video?
G: Non lo so, gente in piazza che si strappa i capelli e butta i cappellini in aria!
L: Gente a lavoro che ripete il ritornello!
G: Faremo dei concerti come “Med’Uza + Lugi”, sicuramente! Prepareremo il live, però la collaborazione con Lugi come ti ho detto prima non è ferma lì. Noi siamo un gruppo di persone che suonano insieme. Med’Uza, BellRinger e altri sono tutti gruppi che ruotano intorno a questa grande famiglia.
L: Una grande famiglia appassionata del groove.
Nell’attesa di lanciare cappellini ai live, non resta che canticchiare il ritornello a lavoro.