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Luca Barcellona: “Io, lavoratore nel fascismo dei consumi”



Grafico e calligrafo, lavora a Milano, si occupa di calligrafia classica, scrittura su grandi pareti, tipografia e stampa con caratteri mobili. Insegna, viaggia, si confronta con realtà apparentemente distanti. Il mondo di Luca Barcellona è un grande Sole azzurro che merita di essere scaldato e scoperto. Ecco perché.

Luca Barcellona

Luca, la tua arte e la tua sensibilità, legate a diversi brand internazionali, restano molto personali. Sempre. Qual è il punto di forza del tuo modo di lavorare con la calligrafia e da dove pesca il tuo immaginario?

Quando ho scoperto il mondo della calligrafia, era il ’98-’99, ed ero già nel pieno viaggio della scrittura, cercavo esattamente qualcosa in cui incanalarla, dal writing ad uno step successivo: le tag non erano ben viste nell’ambiente della calligrafia classica, per una questione di preconcetti e anche generazionale. Compilazione di inviti, diplomi, loghi, ma tutto era abbastanza canonico, e quando ho fatto il mio primo workshop mi sono reso conto che non c’erano quasi persone della mia età. Il primo impatto non fu dei migliori, ero entusiasta di questa cosa nuova e decisi di studiarla e portarla avanti comunque, inserendola nei lavori di writing che cominciavo a fare. Non era ancora il mio mestiere, ma sentivo che una fusione fra le due realtà sarebbe stata interessante: calligrafia con gli strumenti del writing, due mondi paralleli che non si incontravano; lettere di grandi dimensioni, su parete, e pian piano ho avuto la possibilità di utilizzarla per lavori, che mi permettevano di mantenermi con quello che mi piaceva fare. Dopo parecchi tentennamenti ho lasciato il mio lavoro senza sapere cosa mi aspettasse (e lo rifarei mille volte). Da allora ho collaborato con parecchi brand, grandi e piccoli, usando l’incisione, la stampa con caratteri mobili, il type design, senza discriminare nulla e cogliendo sempre nuove sfide, applicando le lettere in campi diversi, da quelli più commerciali a quelli di ricerca o museali. Amo la grafica ma non sono riuscito mai a farla nel modo in cui volevo, invece mi sono focalizzato molto sulla scrittura. Credo che le cose che ho condiviso in questi anni abbiano in qualche modo contribuito a dare nuova vita all’immagine della calligrafia, una visione più contemporanea ed eclettica facendola sopravvivere anche nell’era in cui il digitale impera, ed ogni giorno ne ho una nuova conferma.

Hogan Rebel; che cosa rappresenta per te, e com’è nata la collaborazione?

Hogan è un cliente, come molti altri per cui ho lavorato. Mi ha dato la possibilità di pormi delle nuove domande, di sperimentare con materiali e tecniche per me nuove. All’inizio ci ho pensato un bel po’, in genere chi mi chiede dei custom nell’abbigliamento sono marchi più legati allo streetwear. Sarebbe stato facilissimo farlo per altri marchi proprio perché sono giù considerati “cool” e lavorano da sempre per essere i migliori sul mercato, attraverso collaborazioni con artisti, strategie di marketing e posizionamento. Poi ho pensato che il mestiere del designer è proprio questo: rispondere ad una domanda, e se c’era un marchio che aveva bisogno del mio intervento era proprio uno come quello, un marchio italiano che produce in Italia, e che cercava un’apertura verso quel settore, anche se di fascia molto alta. Hanno coinvolto già in passato personaggi molto diversi fra loro, sempre per il progetto Rebel Journey. Mi sono detto: posso rendere di mio gusto anche questo prodotto, per un marchio così lontano da me? Mi hanno lasciato completa libertà nelle scelte, sono andato a veder da vicino la fabbrica, conosciuto persone capacissime, ho valutato i materiali, quello che era fattibile o meno nella stampa, e devo dire che il risultato mi ha sorpreso. E in qualche modo da queste esperienze si cresce, facendo i conti con i propri pregiudizi e superandoli. Mi piace il lavoro che è stato fatto fino ad ora.

Hogan

Sui social network l’affiliazione è stata accolta anche con qualche contrasto. Da dove proviene, a tuo avviso, il pregiudizio nei riguardi della collezione Hogan e perché, i tuoi sostenitori, ti vedono così scollato dal brand?

Beh, me lo aspettavo, ma fammi dire un paio di cose su questo: quando ero più giovane, entravo nei negozi e vedevo delle scarpe customizzate da writer molto famosi, e pensavo: “venduti!”
Invece col tempo ho capito che stavano solo lavorando, con quello che gli piaceva fare. Ero più venduto io forse, a fare un lavoro che detestavo per due lire anziché inseguire quello che avrei voluto davvero fare. Probabilmente quindi ero invidioso. Lo sono stato per molti anni e l’invidia, che è un sentimento terribile, guarda caso è sparita proprio quando ho cominciato a seguire la mia passione, cominciando a sentirmi gratificato. E da allora è cambiato molto anche il mio atteggiamento. Nel 2005 ho fatto un progetto solista che trasudava rabbia e frustrazione, chiaro, lavoravo in un negozio e volevo fare l’artista! Oggi alcune di quelle cose appartengono al passato, ma molti pensano che siccome le hai incise, le devi sostenere a vita, o peggio ancora che abbiano sempre attinenza con la vita reale. Quando dicevo “dal mio comportamento vedo chi sto servendo”, non era affatto una cosa positiva, non avevo ancora le palle per mollare un lavoro sicuro in un Mediastore per rischiare tutto, era un’autocritica. Io li capisco quelli che criticano, perché probabilmente ero anche io così, ma loro probabilmente non capiscono me. Vedi, molte delle critiche nascono dal fatto che viene confuso quello che faccio di mestiere con la musica, che per ora non è mai stato un lavoro ma solo una cosa che ho sempre fatto per puro piacere. È facile quindi mantenerla “pura”, se non ci devi campare. Molti rapper infatti fanno altro di lavoro, solo che io mi sono sempre esposto con la mia faccia ed il mio nome in entrambi i campi, esponendomi e rischiando. E come dissi a tal proposito in tempi non sospetti, “più ti esponi e più ti rompono i c******i”. Non aspettano altro che buttarti addosso fango perché ti scoprono umano, vulnerabile. Se qualcuno vede in me una specie di modello senza macchia, beh sappia che non lo sono, lavoro come tutti voi. Se avessi scelto la musica come mestiere, probabilmente avrei un etichetta e mi sarei preso delle critiche per quello, come succede a molti altri, colpevoli di guadagnarci anche, pensa! Inutile dire che nel resto del mondo questo accade da sempre. Retaggi di un’Italietta cattolica dove il denaro era lo “sterco del diavolo”, ma non mi risulta che ci si paghi l’affitto con le preghiere. Non c’è da meravigliarsi poi se in questo paese si parla per dei giorni di come una ministra mangia il gelato. È curioso inoltre come venga attaccato un lavoro per un marchio piuttosto che un’altro altrettanto grande, deduzioni basate su giudizi superficiali e frutto di preconcetti. Il lavoro è lavoro, punto. E i designer da che mondo e mondo lavorano per dei clienti. Molti dei marchi considerati “fighi” in realtà nascondono aspetti tutt’altro che etici, e producono all’estero per mantenere prezzi considerati bassi ma con un ricarico inimmaginabile, per contenere i costi con manodopera a bassissimo costo, questa non è una novità; queste scarpe hanno un target più alto, non l’ho deciso io. Produrre in Italia costa, lo so bene perché ho stampato il mio libro qui, non in Cina. Poi sei libero di scegliere cosa comprare, è l’unica scelta democratica nel “fascismo” dei consumi e dei bisogni indotti.
Fortunatamente degli ultimi anni ho viaggiato molto e ho avuto modo di capire, conoscendo realtà molto diverse dalla nostra, quanto questo tipo di ragionamenti lascino il tempo che trovano, visioni davvero immature ed ottuse consumate davanti ad una tastiera in quel grande tritacarne che è il web. E che forse sono emblematiche dell’Italia peggiore, quella che si beve tutto, che sfoga la sua frustrazione su bersagli facili e che non cambia mai. Un piccolo inciso, poi: io uso i social sia per condividere quello che faccio che per altro, come tutti, ma spesso quelli che blaterano di multinazionali e di etica e cose varie si dimenticano che stanno lavorando con i loro post proprio per arricchire delle aziende enormi, con quotazioni che spesso raggiungono il PIL di un intera nazione.
Io come altre persone in questo campo lavoro da parecchio perché la parola “calligrafia” sopravviva, sopratutto attraverso il lavoro, quello commerciale mi permette di dedicarmi ad altri progetti più liberi e di insegnare nelle scuole con paghe bassissime, perché ce n’è bisogno e perché è quello che avrei voluto avere quando ho iniziato da autodidatta, perché la calligrafia nelle scuole di grafica non era nemmeno menzionata; altre persone stanno seguendo il mio percorso e stanno vedendone i frutti.
Quindi come dire, ho contribuito a cucinare la torta, ed è sacrosanto che me ne prenda una fetta.

Hogan_2

Verso dove ti porteranno i tuoi progetti e le tue “fette di torta”?

Vorrei dedicarmi un po’ di più ai miei lavori artistici, sto preparando una mostra a Basilea per il prossimo anno ed una serie di workshop in Brasile.

Che cosa hai scoperto grazie all’insegnamento e all’Associazione Calligrafica Italiana?

Innanzitutto l’esistenza della calligrafia, quando non potevo cercarla su Google e non era così scontato il suo nella pubblicità, nei primi anni ’90. Sono state queste persone a rimetterla sul mercato, e in modo molto serio. Non sono un insegnante, almeno non solo, ma attraverso l’insegnamento ho imparato molto su me stesso e a considerare la via della scrittura (Sho-Do, in giapponese) come un filtro per vedere tutte le cose, non solo come un semplice gesto creativo usato per comunicare. Insegnando ad esempio, sopratutto in questo ultimo viaggio a New York e in Canada, ho capito più che mai l’importanza del contrasto, del chiaro e dello scuro: non esiste una cosa senza il suo opposto, ed è un concetto applicabile ovunque. Hai sempre un maestro a cui insegnare, e sempre un allievo da cui imparare.