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Floating on a surface tra l’immaginario e il reale



Floating on a surface

Un profondo senso di incompiutezza domina il mio cuore.

Il tempo, le esperienze mi hanno reso capace, nel volerlo, di interpretare il fluire della vita conservando la pace alla cui ricerca ho immolato l’esistenza.

Conosco l’infinito nelle venature di una foglia e di esso mi nutro.

Sinceramente posso contemplare una manciata di terra per quello che è, scorgendo in essa lo stesso misterioso disegno di cui io faccio parte.

In questa grande fortuna ho persino sperimentato la condivisione senza la quale tutto ciò avrebbe quel retrogusto amaro che soltanto la solitudine sa dare.

Ma anche trovando un’armonia tra il mio essere e l’essere in generale (raggiunta anche tramite esperienze difficili come la spersonalizzazione), l’angoscia si fa strada nel mio intimo; perché scrivendo del mio cuore, di quello che io conosco o meno, di ciò che ho sperimentato o, osservando la mia esistenza dall’esterno, ho visto sperimentare a me stesso, sempre di IO sto parlando.

Conseguentemente tutte le situazioni che mi trovo a vivere, le emozioni che mi muovono, i pensieri che hanno origine in me sono strettamente limitati a quello che io posso essere, e non possono andare oltre.

Sono due brevi parole che affiorano alla mente quando la propria vita scorre in sintonia con la propria filosofia di vita, quando tutto va per il meglio e si sperimenta la felicità: “e poi?”

Cosa si può desiderare quando si smette di desiderare?

Azzardando tali domande sono arrivato a due conclusioni, in contrasto tra loro.

Innanzitutto, mi rendo conto che lo scopo della vita è “semplicemente viverla“, e quindi vale la pena di assaporarla al meglio godendo della quiete raggiunta.

L’altra conclusione scaturisce da un marcato senso di anarchia: comunque vada, qualunque siano le strade che si percorrono, l’unica regola vigente è che si è obbligati a percorrerle. In altre parole non è consentito smettere di essere IO, nemmeno tramite sostanze psicotrope. Perché se a un livello superficiale persino l’alcool può portare ad uno stordimento dall’essere, una volta che ci si perde nei meandri di queste riflessioni, alterare le percezioni ed abbassare i freni inibitori che il cervello invece preme per farci pervenire solo le informazioni necessarie alla nostra sopravvivenza biologica, si rivela un buon metodo per osservare se stessi da una prospettiva che non è la propria, e vedere se stessi da fuori non fa altro che farci rendere conto di essere dentro.

Dentro un gioco di ruolo e di relazioni che è la nostra vita, in cui le persone, anche le più vicine, possono prendere l’aspetto di personaggi completamente insignificanti. Perché in questa concezione anche il proprio essere risulta insignificante.

Obbligati a vivere qualcosa che non può essere interrotto, di cui persino il sonno profondo fa parte, il desiderio più grande è quello di smetterla di essere se stessi, per sentirsi parte del tutto, ed è forse questo il segreto dell’accettazione della morte.

La soluzione più nobile e coraggiosa, nonché profondamente radicale a questa costrizione sembra infatti essere la morte, l’uccisione di se stessi semplicemente per non esserlo più indipendentemente da cosa questo gesto possa comportare.

Equivale lo smettere di essere un IO con lo smettere di essere in generale?

O forse i nostri pensieri e l’entità che sento all’interno di questo corpo fisico superano questo spazio e questo tempo?

Floating on the surface between the real and the imagined, between what comes to us from the outside and what comes to us from within, from deep, deep down in here” (A. Huxley)

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