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Kosha Dillz, quando l’ISIS se la prende con il rap



A Pasqua è uscito con un videoclip ispano-ebreo che rende grazie all’esodo: secondo la Bibbia, gli ebrei emigrarono dall’Egitto e tornarono a Canaan. Pochi mesi fa l’Isis gli oscurava il sito web, “vandalizzando” il personale ring di cyberspazio, e obbligando il Dipartimento della sicurezza interna degli Stati Uniti a prendere misure speciali. “Come l’ho scoperto? Mi è arrivato un messaggio da SoundCloud che diceva, ‘Hey, ho controllato il tuo sito ed è stato hackerato’. Non è piaciuto ai simpatizzanti dell’Isis che al mondo circolasse un rapper bianco ed ebreo. A me ha dato solo tanta pubblicità”.

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L’indie-rapper di religione ebraica Kosha Dillz ha uno slogan: “Kosha Dillz Is Everywhere, Kosha Dillz è dappertutto”, ed è la verità: nonostante le minacce, Kosha è appena tornato dal South By Southwest ad Austin, ma ci sono stati anche il Warped Tour e la presentazione di video remix della canzone Been Down. Nel 2015, Dillz (vero nome, Rami Evan-Esh) parte dal sogno (già avverato) di andare in tour con Snoop Dog e suonare con Macaulay Culkin, per dar spazio all’opening di Nas e infiammare il successo dello Oy Vey showcase, evento di musica e battaglie all’ultima rima avviato nel 2012.

Lunga storia di dipendenza da droghe (“Ho festeggiato i miei 18 anni dietro le sbarre. Sono stato in carcere anche a 21: gli altri andavano al college, io rischiavo di offrire il mio corpo al banchetto dei detenuti”). Oggi, Kosha, seduto ad un tavolino scassato che puzza di caramello allo Sugar Cafe di New York, è devoto all’amore della famiglia, e trova nella musica qualche lampo di comprensione per se stesso: “Ho parecchie ossessioni” dice. “Ora metto i miei turbamenti in forma di hip-hop”.