Il dolore diventa arte. Il titolo della mostra di Athar Jaber a Palazzo Medici Riccardi (Firenze), giovedì 2 luglio, prende di petto scultura e corpo come se fossero un opale della vita. Basta prender parte all’inaugurazione alle ore 18, nella Sala Fabiani di Palazzo Medici Riccardi, in Via Cavour 3, e l’esposizione curata da Neri Torcello e Yan Blusseau – fino al 31 luglio – vi lascerà senza fiato.
Athar Jaber è un artista dominato da un dislocamento storico: quello dei suoi genitori, artisti iracheni stabilitisi in Italia nell’impossibilità di rientrare nel proprio Paese, lasciato per ragioni di studio, a seguito della salita al potere di Saddam Hussein. Athar è figlio della prima generazione di diaspora irachena, proviene da una famiglia di intellettuali in volontario, ma necessario, esilio. Nato a Roma e cresciuto a Firenze, “parla e sogna” italiano. Professionalmente, lo si può considerare un nord europeo: per i suoi studi musicali presso il Royal Conservatoire dell’Aia e Rotterdam e per la laurea presso la Royal Academy of Fine Arts di Anversa, dove ora insegna scultura.
Una storia personale toccata dal tarlo dell’identità nazionale. In quanto figlio di cittadini iracheni, Athar Jaber è nato in un contesto familiare di forte consapevolezza politica. La sua vita adulta di professore e artista devoto alla scultura in marmo, gli ha restituito i pezzi mancanti del puzzle personale.
Dove è collocata dunque l’identità di Athar Jaber? Nel marmo, inteso come materiale familiare, quasi domestico, per un adolescente di Firenze cresciuto disegnando le sculture della propria città. Ma non solo. In questo materiale duraturo, solido, e al tempo stesso malleabile e fluido, Athar ha trovato il proprio adeguato interlocutore. Il dialogo con il materiale è diretto, corporeo.
Il marmo consente di riflettere, dubitare, mettere a prova la propria dedizione, esaminare direzione e integrità artistica. Al contempo, la natura tradizionale e storicamente identitaria del medium pone Athar di fronte alla prova del riplasmare l’iconografia storica, così da poter incarnare temi più urgenti.
Nell’opera di Athar Jaber, la scultura in marmo tradizionalmente concepita si dilania sotto gli occhi di chi guarda, si apre. All’entropia. Una trasformazione interna si schiude allo sguardo nelle opere di Athar. L’occhio, abituato al lineare, assiste a una metamorfosi artistica che fa emergere cambi repentini di superficie, non-finito, deformità, mutilazioni.
Nelle serie di sculture Opus 4 (2009-2013), le qualità mimetiche del marmo sono spinte al limite estremo in una ricerca che, pur affondando le radici in un virtuosismo tecnico, lo trascende, per presentare un nodo figurativo che lotta con lo sguardo. In questa serie, il ‘fare’ dell’artista ed il ‘fatto’ della scultura si intrecciano. Questo è il congegno che Athar innesca applicando il concetto musicale di cadenza d’inganno, un escamotage storicamente volto a rinviare il piacere della conclusione di un brano, a posticiparlo. Athar sottrae questo piacere, ma, in fine, non lo restituisce. Anzi, vi immette dettagli anatomici riconoscibili. La scultura resiste così alla comprensione, generando in chi osserva una inquietante vertigine cognitiva.
Intervista audio a cura di Erfan Rashid.