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Solo Il Supereroe della Street Art



“Il graffitismo è entrato ufficialmente nella scena artistica internazionale, collegandosi per certi aspetti al neoespressionismo e alla transavanguardia europei”. -Enciclopedia Treccani

Tra le varie correnti, risultato di sviluppo dei media, della pubblicità (caratteristiche della Pop Art) e influenze culturali si viene ad affermare il graffitismo che ad oggi è riconosciuto come movimento tra accesi dibattiti culturali e disapprovazioni.

L’elemento opera di cambiamento radicale che subito diventa caratterizzante è la trasformazione del supporto di operazione: il muro.
Innovazione controversa in quanto utilizzato in epoche passate, ma mai così massicciamente criticato.
È lo stesso mezzo utilizzato dalla pubblicità: gli intervalli grigi dei palazzi, vengono spezzati da manifesti che hanno un impatto visivo immediato su chi li osserva, lanciando un messaggio.
Il graffito sfrutta lo stesso spazio, cercando l’impatto immediato delle persone.

Dallo stesso supporto si sviluppa un movimento analogo, ma incentrato sull’immagine, che riprende il concetto base dello sviluppo dell’arte: crea una risposta ad una domanda.
Nasce così la street art, arte urbana che si concentra sulle problematiche sociali con una vena spesso sarcastica, unendo la grafica del fumetto e integrando talvolta la serialità e i canoni della Pop Art. È un’arte illegale, che sfruttando lo stesso strumento dei media, si impone come messaggio diretto al fruitore, senza passare da approvazioni o strutture, ma affrontando la quotidianità del passante.
È questo il momento in cui chiedersi se l’arte diventa tale nel momento in cui è il popolo o le istituzioni a definirla tale. E se proprio nel momento in cui la domanda diventa attuale e la richiesta delle persone diventa reale, le istituzioni e le gallerie decidono ciò che la popolazione si stava chiedendo, diventa risposta reale o speculazione? Lo spazio delimitato si contrappone all’aspetto di libertà espressiva caratteristico della street art e lo contamina o lo legittima culturalmente? «È sbagliato nel modo in cui viene applicato il mezzo della galleria: come la televisione che potrebbe essere uno strumento di comunicazione ottimo se trasmettesse la verità e aiutasse a capire davvero come funziona il mondo. Non vedo però un senso sbagliato in assoluto.
La galleria legittima anche il lavoro: se fai lo street artist per vocazione, lo fai per la gente, però poi quel lavoro non ti porta soldi -a meno che il muro non ti viene pagato-.
I pittori di Etam Cru, per esempio, hanno iniziato anche loro su strada, poi in Accademia: i loro muri sono stupendi, le loro tele sono stupende. Vieni a dirmi che non ti metteresti un quadro loro dentro casa. Il linguaggio d’espressione secondo me deve essere totalmente libero: è il modo che fa la differenza. In ogni caso io non vedo le gallerie come demoni: ho incontrato galleristi che fanno il proprio lavoro per passione e per divulgare un tipo di arte. Se mi devo chiamare street artist perché poi non posso più fare un acquerello su carta, perché non sta per strada secondo me è limitativo: l’etichetta non va bene. È arte. Come fai a limitarla?»

Osservando il lavoro artistico concentrato nelle strade di Roma e ammirando il contrasto tra storia, classicismo e contemporaneità, spicca all’improvviso lo stencil di Spiderman e accanto scritto a chiare lettere: “Solo”.
Il supereroe protagonista del fumetto è la peculiarità identificativa dello street artist romano Solo, che esprime un’esigenza comunicativa attraverso ciò che per lui è stato essenziale spaziando, rappresentando e reinterpretando con un messaggio l’intero universo del fumetto che «a me ha insegnato ad affrontare tutte le sfide, a tenere sempre duro, a tenere sempre la testa alta utilizzando tutto quello che hai, perché alla fine tutti noi abbiamo dei superpoteri, anche se non alziamo le macchine e non voliamo. L’essere umano ha una tenacia e una forza di volontà che ti può veramente far fare di tutto».
E affrontando quell’aspetto a primo impatto fanciullesco si riscoprono degli aspetti sottovalutati, tendendo a delimitare superficialmente alcuni prodotti nel proprio contesto e non focalizzandosi sul fatto che «entusiasmarsi tutta la vita per le cose come i bambini è una cosa che è molto difficile da mantenere, però è fondamentale. Il supereroe è legato ad un immaginario infantile -che è anche l’accusa di molti curatori riguardo i miei lavori-, ma se guardi a V per Vendetta, Maus o Watchman vedi che affrontano argomenti molto seri che un bambino non capirebbe e qualche volta nemmeno un adulto».

E se il passaggio spontaneo da graffito a street art sembra così immediato, Solo esamina i vari aspetti controversi del suo percorso, di quelli della sua città, delle sintonie e divergenze di questa giovane forma di espressione, partendo dalla scelta della sua tag.

Perché Solo?

Solo nasce da tante cose: deriva dal fatto che io da ragazzino scrivevo Pisolo, perché avevo un problema col sonno. Non dormivo mai la notte, perché o lavoravo o disegnavo o stavo davanti alla televisione e poi di giorno mi addormentavo ovunque. Ovviamente il tag Pisolo non è molto potente, quindi si è trasformato in Solo. Entrato in Accademia ho cominciato ad usarlo anche come firma e non l’ho più potuto cambiare. Alla fine poi andando avanti col tempo mi sono accorto che la dimensione di solitudine mi rispecchia.

Il territorio romano si è evoluto negli anni, passando da un florido movimento incentrato per la maggior parte sui graffiti ad un incremento netto della street art. È stato un cambiamento che ti ha influenzato a livello espressivo?

No, perché in realtà io non ho cominciato proprio agli inizi della street art. Il primo poster l’ho messo intorno al 2009-2010, mentre questo boom c’è stato negli ultimi due anni -anche se se ne parlava già prima-: è una cosa più di oggi. Nel 2000 è cominciato ad apparire Banksy e Obey ha avuto la sua ascesa commerciale; il comune di Roma ha varato la mappa della street art due mesi fa. Mi ha influenzato sicuramente quello che vedevo intorno a me: altri artisti romani che ho conosciuto in Accademia -che ho visto cominciare a fare questo passaggio- e quello che succedeva in tutto il mondo. Non direi però che le istituzioni abbiano influito più di tanto, perché già avevo iniziato.

Qual è la tua opinione riguardo all’inserimento di alcuni tuoi pezzi nella mappa della street art che ha realizzato il comune di Roma e al progetto stesso?

Quella del comune, non è una vera e propria mappa, ma è una specie di brochure in cui è rappresentata Roma divisa in più settori e per ogni settore ci sono i quartieri in cui si è intervenuti con la street art: è un po’ confusa, dato che il comune ha inserito quasi esclusivamente i progetti in cui ha partecipato ed ha investito. Qui è stato incluso un mio pezzo che si chiama Nina, che paradossalmente ho fatto -tra virgolette- illegalmente: non ho avuto né dei soldi, né un permesso per fare quel lavoro. L’ho realizzato per le case popolari, richiesto dalle persone che vivono lì in collaborazione con alcune realtà del quartiere (come i Poeti del Trullo e I Pittori Anonimi). Era un progetto che è stato curato solo da noi, senza finanziamenti. La cosa che mi ha fatto sorridere è che Nina è stata inserita in questa mappa pur essendo parte di una protesta pacifica autonoma (nata al Trullo dai Pittori Anonimi per creare una coscienza sociale al quartiere valorizzando gli spazi lasciati al deterioramento, ndr). La cosa ironica è che se io sto facendo un muro illegalmente e in quel momento la polizia mi becca sono perseguibile, però se il muro è finito ed è fico può essere inserito in una mappa. Nonostante questo sono contento di essere stato incluso.

La considerazione riguardo al graffito inteso come writing è solitamente inteso in accezione quasi negativa, escludendo la componente estetica; eppure i diversi stili e l’associazione che oggi viene accostata all’ambiente grafico come la creazione di font rivede un po’ l’elemento di una affermazione di sé. Cosa ne pensi al riguardo in qualità di street artist?

Io ho iniziato coi graffiti e ho continuato a farli per tantissimi anni e poi ho cominciato a disegnare perché era la cosa che mi veniva meglio: io non vedo questo contrasto. Considera la cosa dal punto di vista storiografico: nascono il tag, i graffiti e una costola di questi diventa street art – anche se poi i graffiti sono sempre esistiti. Io personalmente penso che questa rivalità che c’è tra graffitari e street artist sia una gran cazzata. È veramente stupido fare guerra anche tra di noi, quando abbiamo già abbastanza avversari all’esterno: così non si crea un movimento unico. Tu ti esprimi con le lettere, io mi esprimo con la figura, ma siamo tutti e due su strada, stiamo tutt’e due usando bombolette spray. La differenza creata dalle istituzioni è che lo street artist disegna e quindi la sua opera viene vista come riqualificazione del territorio, il graffitaro invece fa vandalismo, quindi è il male. Già crei una differenza. Oltre a questo, c’è il problema della comprensibilità del linguaggio. Il graffito è una cosa d’élite: può essere bello, può essere colorato, però la vecchietta che passa per strada non capisce che c’è scritto e quindi non riesce a metabolizzarlo. Secondo me però queste sono sovrastrutture che ci hanno creato: “divide et impera”.
Se oggi c’è la street art è perché prima c’erano i graffiti. Tutti gli street artist alla fine sono graffitari: sono due o tre quelli che sono nati con la street art.

Qual è il messaggio che veicoli rappresentando in un contesto urbano e quotidiano un personaggio derivante dalla sfera fantastica e utopica come quella dei supereroi?

È come se fossero dei memento vitae. Il fumetto mi ha accompagnato sempre: il primo me lo comprò mio padre a 9 anni. Trovavo tutte le risposte. Ogni volta che dovevo elaborare un problema o un dispiacere, il fumetto mi dava quella forza per tenere duro e andare avanti. Io metto il fumetto per strada in modo che anche la persona che non ha avuto la fortuna di leggere fumetti possa trovare questo essere spronato a non mollare.
Un aneddoto: una volta ero in Sicilia ad un festival per fare un muro che avrebbe dovuto simboleggiare la lotta alla mafia. Mentre dipingevo Superman che combatte contro una cupola di vetro, passa una vecchietta, mi fa scendere dalla scala e mi dice: “Sai, Superman ci vorrebbe davvero in questa regione. Risolverebbe un sacco di problemi che abbiamo”. A quel punto avrei potuto posare i pennelli e tornarmene a casa. Quello è ciò che cerco di comunicare: mentre giri per strada e vedi tutte le pubblicità che ti dicono di fare qualcosa e avere qualcosa da te, io con i supereroi cerco di rendere qualcosa a chi lo guarda. Ovviamente non ti risolvo il problema della vita, però cerco di dare quell’energia che ti porta ad andare avanti. Quello che faccio, lo faccio per le persone, per i bambini e per mandare un messaggio: “Never give up. Cioè, daje”.

Quale analogia accomuna il supereroe che si nasconde dietro ad una maschera e lo street artist che usa lo stesso mezzo per celare la propria identità?

Il supereroe che si nasconde dietro la maschera fondamentalmente lo fa per proteggere chi gli sta intorno, oltre che se stesso. Ha la maschera perché in quel momento è solo il supereroe. Batman è Batman e non puoi collegare le persone che lui ha vicino, perché è solo. L’unico modo per far male a Batman è far male a Batman. Secondo me lo street artist in un certo senso è uguale: tutela una sfera della sua vita intima che non deve essere messa alla mercé di tutto quello che poi è la street art: legale, illegale, il comune, i soldi, la galleria, la speculazione…
Io sono Solo, parla coi miei muri, con il mio lavoro, punto. Cerco di tutelare una piccola sfera di me stesso per non fare in modo che qualcun altro se ne possa appropriare. La maschera è una protezione. E non è detto che il vero se stesso sia quando non hai la maschera, ma piuttosto quando ce l’hai.

Esaminando i vari aspetti dell’arte, del quotidiano, di se stessi allo stesso modo delle opere di Solo: «più sei profondo tu, più puoi andare a fondo con la lettura».

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