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Suburra e il western di Mafia capitale



L’opinione di Kame

Il vizio estremo di un uomo convinto della propria potenza che porta a dinamiche meticolosamente intrecciate e senza via d’uscita è, in sintesi, l’argomento che fa da sfondo a un raffinato e crudo affresco di una Roma che non vorremmo mai mostrare ai turisti.

Suburra, che nell’antica Roma rappresentava un quartiere malfamato, palcoscenico criminale distante pochi passi dai palazzi del potere, è un western metropolitano dove il crimine fa da padrone; una Roma grigia, bagnata, in constante tensione, in cui tutte le mosse dei protagonisti non possono che portare a violenza, ma una violenza mai fine a se stessa, una violenza che serve a tenere intatto un sistema che vive sempre meno nel sottosuolo e non ha paura di bruciarsi al sole.

Suburra è un conto alla rovescia verso un’apocalisse casuale e anticonvenzionale, legata a un’epocale crisi politica e religiosa, un effetto domino inarrestabile che parte dall’alto per cadere repentinamente verso l’ignoto, lasciando impotenti anche i meno scontati.

Il film comincia subito con una data, e fin dalle prime immagini si capisce che della Roma dei tour operator, in queste due ore, si vedrà poco e niente. I protagonisti, tutti legati in qualche modo alla malavita sanguinaria della Capitale, spuntano progressivamente all’interno di una narrazione accattivante e dal ritmo incalzante. La fotografia è impeccabile, quasi hollywoodiana per precisione ed equilibrio, così come la regia del padre di Gomorra e Romanzo Criminale. Le musiche degli M83 s’inseriscono silenziosamente nella storia, creando un’atmosfera ansiosamente futuristica.

Suburra terrorizza, trasforma continuamente l’inquietudine in carica adrenalinica, creando uno stato d’animo che alterna sensazioni di rabbia e soddisfazione per tutti i 130 minuti; nessun vuoto noioso, solo pura e costante estasi. Scene che spaziano dallo splatter all’action con una spontaneità disarmate, toccando, in alcuni passaggi, anche alcuni lati sadicamente comici.

Suburra è una storia che parla di crimine, un mondo in cui gli sbirri è meglio che restino fuori, uno scenario tipicamente americaneggiante, ma che conosciamo molto più di quanto ci aspettassimo: un’Ostia che sogna Atlantic City con tanto di Boardwalk, una Roma senza monumenti, ma solo quartieri pieni di storia di strada, della strada più sudicia, generazioni malfamate, che si accavallano, modificando gli atteggiamenti e le sorti di tutto ciò che gli sta attorno.

In un’Italia che vede funerali con rose rosse che piovono dal cielo, politici continuamente inquisiti per reati che renderebbero incredulo anche il più ingenuo, omicidi che si consumano nel nome dell’ignoto sempre più spesso, Suburra s’incastra alla perfezione, e Sollima, con questo lungometraggio, il secondo della sua carriera dopo A.C.A.B – All Cops Are Bastards (2012), sembra profetico.

Suburra è la storia della Mafia del nostro secolo, quella lontana dalle “famiglie” e vicina alla radice, alla fonte, quella più vera e meno scontata, lontana dai cliché a cui la cinematografia classica ci ha abituato per decenni.


L’opinione di Anya Baglioni

La ripresa sfocata che si concentra sull’ultimo piano in lontananza.

Una fotografia splendida per ricamare un intreccio specchio di un’Italia recente, fin troppo familiare.

Ancora una volta, il quadro dipinto dal regista Stefano Sollima, si concentra su un’oscurità fin troppo lapalissiana di questo Bel Paese.

La descrizione di un retroscena corrotto, che si adopera nell’ombra, in cui qualcosa va storto, e crolla, si sgretola lentamente, perché una carta del castello, posta un po’ all’estremo, nelle seconde fila, si è spostata, si è destabilizzata e alla fine con un soffio, squilibrata, è caduta innescando una reazione a catena.

Questo è lo scenario descritto, in cui le narrazioni di politica corrotta, clero impuro, mafie, droga ed escort in sontuosi alberghi e una capitale ormai carcassa divorata dai propri figli si inginocchia ad uno stato di amarezza, angoscia e disgusto controllato sotto un’incessante pioggia, che non riesce a lavare l’immoralità di un popolo che solo nel mondo è stato in grado di coniare e definire “omertà”.

Niente di nuovo per l’ultimo ventennio italiano.

Una nuova Grande Bellezza per uno scheletro che viene truccato, abbellito, ingioiellato per farlo sembrare forte e sano da presentare a dei cittadini che negli intrighi di palazzo hanno unito il proprio paese: un’Italia riflesso di un Berlusconi per sempre giovane e coi capelli.

Il Bel Pese da sempre riconosciuto per pizza, sole e mandolino, ha sostituito ormai da tempo i suoi cliché con nuove certezze:

Sì, c’è una mafia imperante.

Sì, c’è uno Stato depravato.

Sì, la mafia è stato e lo Stato è Chiesa.

Sì, ci sono la droga, le puttane e i soldi (che sembrano non essere valuta per una crisi decennale, ma solo per mazzette ed indulgenze).

Un fondamento marcio, che ad ogni passo scricchiola di più sotto il peso della fame egoistica di chi governa e cerca di convincere chi li vota, che sta lavorando per le persone, sempre più povere e disperate.

Siamo una popolazione con un sorriso amaro e una pistola puntata alla schiena, mentre ci obbligano a vestire lustrini e mangiare ventresca di tonno, quando tornando a casa chiediamo prestiti per pagare le bollette.

Un pesce magro spolpato fino a succhiare anche il midollo delle ossa, che hanno il sapore del benessere, ma nessun nutrimento.

Sono le tinte ostentate di un colore ormai opaco, che sta sostituendo il grigiore dei palazzi delle città, dei paeselli, dei borghi: un nuovo stereotipo.

Una strada con l’asfalto crepato e voragini che si allargano di giorno in giorno, difficile da percorrere.

È la crudezza di una prospettiva di una realtà che ci appartiene in parte, che possiamo guardare più o meno da vicino, che rappresenta una percentuale minima del popolo, anche se ne è manifesto.

Ma se vogliamo calcare la mano e risaltare il carattere drammatico e lamentoso di ciò che ci circonda, ecco che forse abbiamo un ritratto fedele di ciò che è l’animo italiano.

Suburra è critica e manifestazione più verace del nostro piccolo stato italiano, che oltre ad avere cittadini che affettano chili di carne per cucinare pretenziose leccornie di alta cucina, lo fanno anche con la loro misera vita, baciata da un caldo sole ed appagata da stomaci sazi.

“State a piagne”.