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Le 3 trappole degli attacchi di panico



Esistono tre fenomeni della mente umana che vanno oltre le logiche ordinarie tanto care alla cultura occidentale.
Le credenze (mi comporto come se una cosa fosse reale, e così facendo la rendo reale),
le contraddizioni (voglio fare una cosa ma finisco per fare l’opposto),
i paradossi (gli opposti che coesistono: ti amo e ti odio).
Quando si affrontano problemi ordinari, e soprattutto problemi psicologici, è necessario considerare questi elementi.
Parlando di attacchi di panico, esistono altrettante trappole comuni a tutte le persone che hanno la sfortuna di averci a che fare in prima persona o indirettamente.

#1. CERCARE DI CONTROLLARSI (paradosso)

Cercare di mantenere il controllo sulle nostre funzioni fisiologiche è la prima trappola nella quale di solito si cade. Controllare ci fa perdere il controllo, come cercare di addormentarsi ci fa restare svegli. Il mio battito cardiaco accelera, magari per uno stimolo che non vedo. Mi sembra strano, e decido che è troppo veloce, quindi “provo a rilassarmi”, mi sforzo di calmarmi, il senso di allerta lo fa battere ancora più veloce.
Signore e signori, ecco a voi la tachicardia.
(ho già parlato di paradossi legati al panico in questo articolo)

#2. EVITARE QUELLO CHE CI FA PAURA (contraddizione)

Evitare la situazione che ha innescato il primo attacco di panico sembra una buona idea.
Nell’immediato sicuramente ha dei vantaggi. Ci fa sentire tranquilli.
Però ci fa anche sentire incapaci di affrontare quella situazione, rendendola ancora più spaventosa.
Quindi se evito di prendere il treno, molto presto inizierò a temere l’autobus, e poi le auto.
Ci vorrà poco per realizzare che l’unico posto sicuro è la propria casa, o la propria stanza.
Una strategia che all’inizio funzionava adesso ha un rapporto costi/benefici insostenibile.

#3. CHIEDERE AIUTO (credenza)

La più subdola delle “tentate soluzioni” per affrontare un problema è affidarsi a qualcuno o delegare.
Nell’esempio del treno: farci accompagnare.
Questo ci tranquillizza e ci fa superare le prime difficoltà, ma è un’arma a doppio taglio.
Da un lato il messaggio che ricevo è confortante: c’è una persona che mi vuole aiutare e che tiene a me.
Non sono solo.
Il rovescio della medaglia è che aiutandoci, questa persona ci conferma implicitamente la nostra incapacità, come a dire che da soli non ce l’avremmo fatta.
Se un mio amico mi chiedesse di accompagnarlo perché da solo ha paura, la cosa migliore che potrei fare è ridergli in faccia. In questo modo penserebbe che secondo me non ne ha affatto bisogno.
Ma è dura, perché voglio bene ai miei amici (e infatti è risaputo che uno psicologo non può curare le persone care).

Il coraggio non esiste in natura, neppure nei leoni. Troviamo la forza di affrontare una paura solo come conseguenza di una paura più grande. Nell’esempio del leone, la paura di morire di fame gli fornisce il coraggio di attaccare una preda combattiva.

E l’idea di delegare, come l’idea di evitare, sono le cose di cui aver davvero paura.
Perché le conseguenze sono peggiori del sintomo.