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Kaddour Kouachi va al Sigep



Qualche giorno fa o magari anche di più, (perché m’era passato di mente che mentre vivevo la splendida esperienza di cui sto parlando, durante una pisciata, m’ero convinto valesse la pena parlarne), ho passato un paio d’ore al Sigep, che sarebbe il nome con cui si tenta di dare un tono a quella che tutti chiamano Fiera del Gelato. Sigep sarebbe l’acronimo – o come cristo si chiama se ha un nome diverso quando prende un po’ a cazzo due lettere da una parola e magari zero da un’altra – di Salone Internazionale della GElateria e Pasticceria artigianali.

Il Sigep, giunto alla che cazzo ne so edizione, è ospitato negli abbastanza metri quadri della nuova Fiera di Rimini, gioiellino di cemento e “voglio tornare a casa” incastonato tra il fascino dell’insediamento di zingari vicino al campo da baseball e le lagne di quei frignoni della frazione di Santa Giustina, gente che, dopo aver deciso di vivere in quella scatarrata di case sorta ai bordi del tratto di Via Emilia che collega Santarcangelo a Rimini, da anni protesta per il traffico e lo smog, perché in fondo chi poteva immaginare che quella che da duemila e duecento anni è la principale via di comunicazione della regione potesse essere vergognosamente trafficata?

Basandomi sulla mia esperienza ho dedotto che, al fine di non creare aspettative di piacevolezza che andrebbero drammaticamente infrante in pochi minuti, il Sigep è strutturato in modo che entrando si abbia l’impressione che tutte le persone da cui si è circondati siano venete.

Le teoriche attrattive principali sono i dolci e i macchinari con cui fare dolci, mi pare.

Io che per i dolci non impazzisco, l’anno scorso sono uscito con una cassa di amarone da coglione pretenzioso, quest’anno direttamente con una più umile cirrosi.

Gli stand dei produttori di caffè sono perlopiù spazi riservati in cui rincoglioniti cinquantenni col fetish di Gianluca Vacchi si atteggiano come fossero in un prive del Billionaire col pavimento in battute sui poveri che non fanno più ridere, e non a brindare su una squallida pedana in truciolato bagnata dal sangue dei bambini morti estraendo le cialde dalle miniere in Ruanda.

Avendo speso quasi tutto il tempo a fare la fila per il bagno o a far la fila per il bar o a tentare di capire da quale cazzo di ingresso fossi entrato – perché avevo la giacca nel relativo guardaroba – mi è sfuggita l’esatta utilità del Sigep, anche perché le uniche dinamiche umane cui ho assistito in un paio d’ore sono:

• gente che fa la fila
• giovani standiste molestate da arrapatissimi rappresentanti in camicia bianca, confortati dalla consapevolezza di poter portare dopo poche ore la propria libido a passeggio per il Pepenero e lontani dagli sguardi delle mogli, troppo occupate a essere in Veneto
• persone (tutte) che sudano.

Che sudano perché nei padiglioni vi è un clima equatoriale, la cui unica spiegazione che sono riuscito a darmi è “così la prossima volta invece di fare 300 metri a piedi nel gelo, sudatissimo, e morire, lasci l’auto nei comodissimi parcheggi a tipo 12/15 euro anche se arrivi un’ora prima della chiusura, figlio di troia”.

Conclusione: mi è piaciuto molto, torno anche l’anno prossimo.

[nella remota eventualità che una delle parti citate nel testo possa sentirsi lesa, la prego di prendersela col sito che ospita il testo stesso e in particolare col Sig. Omar Rashid, ché io ho litigato in casa ed è un periodo bruttissimo]

Kaddour Kouachi