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No Ghost in a Gorgeous Shell



A Hollywood i manga non piacciono.
 O comunque, nella migliore delle ipotesi, non li capiscono.. ed è plausibile.


Negli anni gli adattamenti USA di fumetti giapponesi si sono succeduti ad un ritmo biblico (sinceramente… qualcuno si ricorda altro oltre a The Guyver con Mark Hamill e a quella pila di merda di Dragon Ball Evolution?) e i risultati di pubblico e critica sono stati, per usare un eufemismo, molto insoddisfacenti.



Trasporre un’opera nipponica, che sia cartacea o d’animazione, in un contesto occidentale è tremendamente difficile. Ci sono ostacoli culturali che a volte sono insormontabili, così come dinamiche di narrazione diametralmente opposte, tempistiche inconciliabili ed un gusto estetico non sempre omogeneo.


Non mi soffermo troppo sulla questione “etnia” perché è un argomento spinoso, spesso usato dai fan oltranzisti per bocciare aprioristicamente ogni progetto paventato da qualche incauta major. 


L’aspetto fisico e i tratti somatici dei protagonisti dei manga non rispecchiano per nulla, nella maggior parte dei casi, i nomi e le provenienze dei suddetti ma queste ultime sono a volte indissolubilmente legati al nocciolo più profondo della narrazione.


Ci troviamo così nella paradossale situazione di avere, sparo un nome a caso, una Rangiku Matsumoto (Bleach) con i capelli di Jessica Chastain, gli occhi di Liz Taylor e il seno di Christina Hendricks che però non può certo essere interpretata da un’attrice caucasica che abbia una summa delle sopraccitate caratteristiche (tra l’altro: vorrei conoscerla se esistesse) perché il nome e la provenienza giapponese stonerebbero con i tratti somatici… che però sono esattamente quelli con i quali è stata creata!

Capite quindi che è difficile trovare una soluzione a questo nodo gordiano che non scontenti qualcuno.


Per non parlare del fatto che, scegliendo un cast asiatico sconosciuto ai più in occidente, si perde gran parte dello “Star Power” che spesso attrae le masse a vedere film che non conosce ma che sono interpretati dal/dalla attore/attrice del momento.



Insomma, con tutto questo in mente la Universal (ed una pletora di altre major associatesi) e il regista Rupert Sanders hanno deciso di cimentarsi con la trasposizione live action di un anime (che prima è stato un manga) fra i più celebri, amati, rispettati ed imitati della storia.

Quel Ghost in The Shell che ha ispirato pesantemente, per dirne una, le sorelle Wachowski nella creazione di Matrix.
 Hai detto merda.


 Ma, vi chiederete, che fine hanno fatto i temi filosofici, la complessità di lettura a più livelli, le impossibili domande esistenziali che l’anime poneva? 
Cosa gli è successo? Sotto quale mannaia sono passate per poter diventare un blockbuster remunerativo, si spera, made in HamburgerLand?


Tutte quelle pieghe, impossibili da apprezzare per dei neofiti o per il pubblico generalista, sono state livellate e semplificate da una storia molto più lineare e dal sapore conosciuto. 
Come il sushi per chi non è abituato al sushi… col Philadelphia insomma.

Non è in questa sede che ci occuperemo di decidere se sia giusto oppure no semplificare una materia ostica al grande pubblico per renderla più appetibile (anche perché sarebbe come cercare di decidere se sia giusto o meno che certe persone siano meno intelligenti di altre), consci del fatto che il paragone con l’originale è assolutamente inevitabile, qui procederemo a giudicare il film live action dandogli dignità di prodotto standalone.



Nel ruolo principale di Motoso Kusanagi/Mira Killian/Il Maggiore troviamo una impeccabile Scarlett Johansson, che si sforza di reprimere per tutto il film la sua strabordante carica erotica assumendo di volta in volta posture e atteggiamenti nel migliore dei casi assessuati o addirittura maschili. 
È lei il perno attorno a cui tutta la vicenda ruota, non solo per l’ovvietà rappresentata dal fatto di essere la protagonista, ma anche perché (ahimè) il cast di contorno non è mai sufficientemente approfondito, compreso il pur affabile Batou. 
La sessualità di Motoko, tema fra i centrali della pellicola del 1995, qui viene esplorata superficialmente tanto quanto allora ma con una diversa ottica.


Meno impattante dei nudi integrali e disinibiti del personaggio animato tramite i quali dimostrava a se stessa e agli altri di non riconoscersi ancora un’identità di genere sessuale e di non collegarla a nessun tipo di pudore, perpetrando così il nodo narrativo principale della ricerca assoluta di sè, la Johansson esplora quelle pieghe del personaggio affidatole attraverso l’espediente narrativo della suddetta camminata da “maschio” e la sceneggiatura lo fa, in modo frettoloso, tramite un non consumato incontro sessuale con una prostituta, una scena toccante ma tagliata e buttata lì in fretta e furia che lascia del gran amaro in bocca. 
(Per il mancato sviluppo narrativo eh, mica perché volevo vedere la Scarlett darci dentro con un’altra tipa*).

 Anche il villain della pellicola, col volto di Michael Pitt, ha una genesi e un obiettivo diverso da quello del Marionettista dell’opera di Oshii.


Una più semplice e semplificata esigenza di vendetta che si ricollega al fumoso passato del Maggiore e della compagnia che l’ha salvata e fatta rinascere in un corpo robotico (sarà davvero così?). 
Viene così a mancare tutto il sottotesto etico/filosofico/umanista dell’anime, a favore di una più lineare narrazione “all’occidentale” che comunque non lesina situazioni che generano domande nello spettatore. 
A seconda del vostro grado di empatia e sensibilità non potrete fare a meno di domandarvi cosa pensereste di una come il Maggiore in una ipotetica società futura. 
La considerereste un essere umano? Di più? Di meno?
 Che tipo di società sarà quella che ci attende, al tasso di integrazione uomo/macchina che stiamo già provando oggi?
 Che città saranno quelle in cui vivremo?

Saranno dei grandiosi affreschi post-cyberpunk come quella propostaci da Sanders nella pellicola, che diventa a tutti gli effetti un personaggio meravigliosamente a sé stante e dotati di una propria estetica e di un proprio peso? 
In definitiva la tanto temuta ed accusata versione live action USA di Ghost in The Shell è un po’ come il Diavolo: mai brutta tanto quanto la si è dipinta.
 Anzi, il comparto visivo del film è semplicemente perfetto, tanto da risollevare alcuni momenti di stanca e da “distrarre” lo spettatore stimolando il suo senso estetico a discapito della sua sensibilità filosofica.
 Hanno cambiato molto, ma non tutto, l’hanno fatto in maniera sufficientemente intelligente ma non abbastanza da risultare brillante di una propria dignità se paragonato all’originale.


Ghost in The Shell è un film che si regge sulle spalle della sua fredda protagonista e sulla gloria visiva di scene incredibili.
 Un guscio stupendo ed indimenticabile che fa perdonare la sua pochezza, una volta aperto.




VOTO: 7

Articolo a cura di Matteo Cabiola